È venerdì. Piove. Non serve altro per farmi decidere di afferrare un libro dallo scaffale più alto, per sedermi sul divano mentre di là, in cucina, l’acqua è in procinto di bollire. Non mi ricordo perché ho comprato questo romanzo, né quando l’ho letto, riesco soltanto a sentire nuovamente sulla mia guancia la sensazione di quella lacrima che attraversò la pelle nel momento in cui lo terminai. Poi spensi la luce.
Inizio a sentire il rumore delle centinaia di bollicine che dal fondo dalle pareti del pentolino cercano di emergere, sospinte da un’energia così violenta quanto seducente. Sono costretta a spostare la coperta, alzarmi, raggiungere la cucina, spegnere il fornello e aprire la scatola di legno: so già cosa sceglierò, ma soltanto perché ho finito il libro e ogni tassello è tornato al suo posto, senza più essere precario. Prendo un cucchiaino di questa miscela scura che verso direttamente nell’acqua bollente, affinché tutte le foglie si allarghino e navighino in direzione degli spazi vuoti, per riempire della loro essenza tutta la circonferenza del pentolino nero. Torno al mio posto. Sistemo la coperta e apro il libro lì dove ero rimasta, a pag 43: “Lei è donna, non è giorno, non è trasalimenti, va ben oltre le astrazioni e si deposita in una parola neutra, fatta di due sillabe. Due sillabe che colleghi a due gambe dritte come staffili, due seni rotondi come forme di latte cagliato e due occhi neri come una notte impercorribile. To-Ni.”
Non mi ricordo perché ho comprato Vita precaria e amore eterno, né quando l’ho letto, riesco solo a riprovare quella morsa allo stomaco che, puntualmente, arrivava a travolgermi ogni volta che questo amore eterno veniva raccontato dalle parole di Martino Bux. Sono passati 5 minuti. Sono costretta a spostare la coperta, alzarmi, raggiungere la cucina e travasare il contenuto del pentolino in una tazza frapponendo fra loro la maglia serrata di un colino, che dividerà per sempre i due amanti appassionati, il tè e l’acqua, la quale si sarà macchiata di quell’amore impossibile, portando con sé i segni di un rapporto totalizzante, simbiotico, eterno. Con questa tazza profumata e scura come la notte che si avvicina alla mia finestra, torno al mio posto e risistemo la coperta. Prima di aprire il libro lì dove ero rimasta, appoggio le labbra sulla ceramica e assaggio il primo sorso, che è sempre il più precario, ma anche il più sorprendente. Ci vogliono più di due attimi per decifrare bene questo sapore così particolare, incerto subito, determinato poi.
“Toni comparve nella corona di pensieri estremi. Era tutto un vorticare dentro il cervello e con le gambe penzolanti nel vuoto. Sentivo sotto l’aria, la circolazione del sangue delle gambe sospese si modificava, le vertigini si mutavano in una nausea ansiosa.” È un tè nero, scurissimo nel suo colore così come nella sua robustezza, il suo vigore si associa ad un sapore che mi ha sempre conquistato per la sua singolarità e, soprattutto, per il suo odore, assolutamente indescrivibile.
Il romanzo di Mario Desiati, che continuo a sfogliare fra un sorso e l’altro, l’ho letto non so quando, non so perché, eppure ricordo la storia che racconta, le debolezze del suo protagonista, l’Italia che vi è celebrata e assieme biasimata, i legami che vi abitano, i limiti e i dispiaceri che vi si affastellano. Ricordo gli incubi notturni scatenati da un dolore lontano e vicino e quel sentimento che è tanto coinvolgente da disturbare il lettore, ricordandogli che l’amore è eterno, nonostante tutta la precarietà.
Il mio tè è già finito, viene da Ceylon e dal Vietnam e ha il sapore inconfondibile della liquirizia.