Magazine Diario personale

D’intorno

Da Unarosaverde

Dal tepore della vasca interna esco, per irresistibile richiamo dell’aria fresca, lasciandomi alle spalle il vapore e, fatti pochi passi, sprofondo nella piscina olimpionica esterna sulla quale sta calando la sera. L’afa del giorno è un ricordo, l’acqua raffredda e pulisce, raccogliendo pezzi di cielo e montagne, accompagnandoli verso il buio.

Pochi metri più in fondo c’è la pista di pattinaggio in cui ho trascorso per qualche tempo innumerevoli sere estive, fino a due anni fa. Adesso è stata riconvertita ad uno sport più popolare e il suo signore e padrone, col suo carattere burrascoso e la sua capacità di fluttuare su rotelle e lame con un’eleganza che mi lasciava ammutolita, non c’è più, ha traslocato. Non riesco più a pattinare da tempo  ma quando me lo hanno detto, che non ci sarebbero più stati i corsi, mi è venuto lo stesso un groppo di nostalgia per quelle sere sudate, per i ghiaccioli al limone leccati sulle panchine di legno, tardi, quando ormai i piccoli se ne erano andati a casa, per la volta in cui, nel buio, ci siamo tuffati nelle vasche in mutande e siamo rimasti beati a guardare la luna, nel silenzio interrotto da sciacquettii e risate, per ogni volta in cui  tornavo a casa, con la testa svuotata dai pensieri, in bicicletta nella notte, come se fossi stata in vacanza per giorni e non per poche ore, e trovavo mia madre e mio padre immersi in conversazioni tranquille sul terrazzo e sapevo che il mio mondo era ancora intatto.

Verso ovest le nuvole colorate di rosa si impastano di luce mentre davanti a me, ad est, il cielo è già scuro e dietro la montagna probabilmente piove. La vegetazione si sta ingollando i resti di una fabbrica che cento anni fa si è mangiata lo spazio di un paese per nutrire il paese stesso. Gli archi di cemento avviluppati dall’edera invecchiano accanto ai capannoni grigi mentre le rotaie che trasportavano i carrelli fino alla ferrovia sono ormai state inghiottite dal passare degli anni. Il mio bisnonno lavorava lì. Faceva l’assaggiatore. Controllava che le colate contenessero le giuste percentuali di minerali. La mia casa, come le altre nel mio quartiere, è stata costruita sui detriti di produzione, masse di inerti talmente agglomerate che neppure le trivelle osano attaccarle. Dietro le vecchie costruzioni che sono state smantellate solo sulle carte degli innumerevoli e vani progetti di recupero, la pietra simona si incupisce di rosso mentre arriva la sera. Ero un territorio sacro, qualche millennio fa. Uomini ci incisero simboli, spesso incomprensibili a noi che manchiamo di una stele di rosetta per i graffiti; dicono che accendessero lumi con polle d’olio versato nelle cavità delle rocce e facessero cerimonie sacre. Tutta la montagna racconta una storia con le sue rocce ma poche sono state pulite, poche ancora conservano tracce visibili. L’Unesco la protegge mentre noi che viviamo ancora sotto la montagna sacra l’abbiamo circondata da ogni lato con le nostre incuranti tracce moderne.

Il fiume scorre accanto alle piscine, immemore e sempre uguale a se stesso, sempre diverso in ciò che lo compone.

Esco, mi asciugo, torno tranquilla in una casa vuota che risuona di memorie e conserva intatte alcune promesse nella quiete di un giugno finalmente caldo, finalmente qui.


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