Da Arthur Conan Doyle a Sherlock della BBC: il ritorno del padre di tutti i detective
Pubblicato da Stefania Auci Cari lettori, Oggi Diario di Pensieri persi si occupa di una serie televisiva che nasce dalla penna di un autore inglese molto amato. Sir Arthur Conan Doyle, lo scrittore. Sherlock Holmes, "the great Sherlock Holmes, the clever detective with a funny hat", il suo personaggio. È il personaggio letterario con il maggior numero d’interpretazioni televisive e cinematografiche (Da Jeremy a Robert Downey Junior passando per Peter Cushing). Che vanta un altissimo numero di mash-up e contaminazioni. Oggetto di innumerevoli imitazioni e ispiratore di generazioni di scrittori e giallisti. È anche il personaggio che è sopravvissuto contro il volere del suo creatore, costretto a “resuscitarlo”, a furor di popolo, dai suoi lettori. Se dobbiamo trovare una data di nascita del fenomeno fandom, ebbene, essa è il 1905, data di pubblicazione de Il ritorno di Sherlock Holmes con “La casa vuota”, il racconto che segna la ricomparsa del più grande detective di tutti i tempi.Sir Arthur Conan Doyle, scrittore prolifico, appassionato di spiritismo e storia militare, persona schiva e severa creò questo investigatore dai tratti caratteriali spigolosi e dalla mente affilata come un divertissement. Il romanzo – che passò quasi sotto silenzio – era “Uno studio in rosso”. L’anno, il 1887. Per il personaggio dell’investigatore più famoso che la storia della letteratura abbia mai conosciuto, Doyle si ispirò alla figura di un medico a lui contemporaneo: Joseph Bell. Quest’ultimo fu un chirurgo che adottò un approccio innovativo nei confronti degli studi scientifici, basandosi su una rigorosa osservazione di cause ed effetti e applicando a essi il metodo scientifico. Furono, però, le opere successive a consacrare Conan Doyle e la sua creatura a un successo che continua ancora oggi, a oltre un secolo di distanza. Sherlock Holmes è “vissuto” – dal punto di vista letterario – dal 1887 al 1927, data di pubblicazione del “Taccuino di Sherlock Holmes”, una raccolta di racconti; Doyle, però, schiacciato dalla fama del personaggio ne descrisse la morte per mano del suo nemico principale, il professor James Moriarty in “L’ultima avventura” (pubblicato nel 1893): un racconto ambientato presso le cascate di Reichenbach, dall’incipit carico di un dolore intenso. L’autore desiderava affrancarsi dalla schiavitù che la fortuna di Sherlock Holmes gli aveva comminato. Desiderava scrivere altri romanzi, dedicarsi ad altri – e più nobili – generi letterari.
Tuttavia l’acuto investigatore era entrato nel cuore dei lettori, costringendo l’autore a riportarlo in vita con un colpo da maestro. Sherlock rappresenta il prototipo della Britishness: fredda razionalità – portata all’estremo, nel suo caso –, controllo dei propri sentimenti e delle emozioni, fiducia assoluta nelle scienze (siamo in pieno positivismo) e un orgoglio patriottico smisurato… il tutto condito con un atteggiamento blasè che talvolta sfocia nell’arroganza. La voce narrante dei romanzi e dei racconti è quella di John Watson. Cronista e migliore amico dell’investigatore, Watson, è un medico militare ferito in Afghanistan, un uomo mite ma deciso, coraggioso e sensibile al fascino femminile. Letture affrettate hanno visto in questa figura quella di un uomo semplice la cui funzione fu solamente quella di far risaltare le capacità deduttive e la logica di Sherlock Holmes. Eppure, se questa chiave di lettura può essere accettabile nella primissima produzione letteraria di Doyle, non è più calzante nei racconti e nei romanzi che seguirono. In essi, infatti, Watson passa dal rango di spalla a quello di vero e proprio co-protagonista con un ruolo attivo e fondamentale, rappresentando, addirittura, una sorta di alter ego dello scrittore; anch’egli laureato in medicina, dotato di baffi e dal temperamento schivo e pacioso. Di tutt’altro carattere è il personaggio di Sherlock Holmes.
“Il suo sguardo era acuto e penetrante; e il naso sottile aquilino conferiva alla sua espressione un'aria vigile e decisa. Il mento era prominente e squadrato, tipico dell'uomo d'azione. Le mani, invariabilmente macchiate d'inchiostro e di scoloriture provocate dagli acidi, possedevano un tocco straordinariamente delicato, come ebbi spesso occasione di notare quando lo osservavo maneggiare i fragili strumenti della sua filosofia.”Il passaggio ivi citato, tratto da “Uno studio in rosso”, è la prima descrizione fisica di Holmes. Un uomo sulla trentina, che ha già delle facoltà deduttive e conoscenze fuori dal comune alternate a un’ignoranza, quasi imbarazzante, su alcune materie. Di queste lacune Holmes non si vergogna, anzi: le aggira aggrappandosi a ciò che già conosce, che può studiare, ma soprattutto a ciò di cui si fida di più, ossia, i suoi sensi. Il lettore si affeziona a questa figura e la vede crescere, maturare, persino invecchiare, senza perdere nulla del suo acume e della sua spregiudicatezza. Con il tempo all’esperienza si aggiungono una pietas profonda e un’umanità impregnata di comprensione. Non viene intaccato in alcun modo il suo senso di giustizia o la profonda aderenza a leggi morali che Holmes ha ben chiare dentro di sé. Logica, scientismo, una spiccata ed eccezionale capacità di osservazione, rifiuto delle emozioni che possono contaminare il ragionamento, si mescolano con un’ironia che spesso sfocia in un sarcasmo pungente. Queste sono le cifre distintive da cui discendono personaggi come Nero Wolfe, Miss Marple, Hercule Poirot, fino ad arrivare a Grissom & affini di CSI.
Allo stesso modo in cui ci troviamo di fronte ad un graduale cambiamento del suo protagonista, è possibile cogliere anche una profonda evoluzione nella scrittura dell’autore. Se le prime opere sono ridondanti, nei racconti e nei romanzi successivi al 1890 la scrittura di Conan Doyle si arricchisce di nuovi spunti: si pone una maggiore attenzione all’ambientazione e agli scenari, o ai mutamenti del contesto storico; i personaggi secondari vengono cesellati con cura; vi sono sprazzi di vita quotidiana che riecheggiano, almeno in alcuni passaggi, un altro grande della letteratura inglese: Dickens.
Guardando in una prospettiva storica viene da chiedersi che senso ha nella nostra contemporaneità la figura di Sherlock Holmes, soprattutto, se si tiene in considerazione quella che fu la crisi del Positivismo?
La Prima Guerra Mondiale e la destabilizzazione morale e culturale che ne conseguì causarono un disfacimento delle certezze del Positivismo: il comportamento umano non è sempre ascrivibile a schemi logici, ma può seguire percorsi che nulla hanno a che fare con la razionalità, raggiungendo esiti drammatici. Questo è ciò che accadde durante la Grande guerra in cui mezzi tecnologici e razionali che la modernità mise a disposizione, furono utilizzati per annientare intere generazioni: un impiego ingente di mezzi razionali per raggiungere scopi irrazionali. Dopo la follia del XX secolo, dunque, quale diritto di cittadinanza può avere un detective che si basa sulla mera osservazione e sulla ricerca della logica in uno schema criminale? In un’epoca in cui gli esseri umani hanno, nuovamente, una fiducia cieca nei confronti della scienza e della medicina, in cui la tecnologia pare aver cancellato il concetto di impossibilità, come può aver ancora successo la figura di un investigatore che si basa sull’osservazione e sulla logica come Sherlock Holmes? Abbiamo C.S.I., N.C.I.S., R.I.S. e Dio-solo-sa-quanti-altri-acronimi. Analisi e prove scientifiche che arrivano in un batter d’occhio, investigatori alle prese con provette e luminol che catturano i delinquenti in un rassicurante finale. Quale posto, infine, occupa oggi Sherlock Holmes nell’immaginario del piccolo e del grande schermo?
Mettendo da parte la versione vittoriana e vagamente steampunk di Guy Ritchie, oggi vi parliamo di Sherlock, la serie-tv prodotta dalla BBC One, andata in onda nel 2011 (prima serie) e nel gennaio 2012 (seconda serie). Il fandom è esploso e la serie è diventata, in pochissimo tempo, oggetto di fan fiction, video e fan art; su Tumblr è un fiorire di post dedicati alla serie e anche Facebook non ne è immune. Anzi.
Lo Sherlock Holmes delineato dai creatori della serie, Mark Gatiss e Steven Moffatt – sceneggiatori di alcune delle serie di maggior successo in Gran Bretagna e grandi appassionati dell’opera omnia di Conan Doyle, da cui hanno attinto a piene mani – si definisce un “sociopatico altamente funzionale”. In poche parole: un motore lanciato fuori giri che riesce a vedere quelle connessioni, quei legami logici che il resto degli esseri umani non coglie. Ma non è una persona stimata o apprezzata, così come accadeva nel mondo vittoriano, anzi: la gente lo tiene a distanza, infastidita dalla sua supponenza e dalle doti di deduzione assolutamente fuori dal comune. “Piss off”, è quello che dice la maggioranza delle persone, come ammette lo stesso Holmes nel primo incontro con John Watson, il suo coinquilino al numero 221 B di Baker Street. L’indirizzo, così come il violino, la sua passione smodata per la nicotina e le sigarette rimangono immutati, segno di una grande fedeltà al canon; altresì, lo Sherlock del XXI secolo ha un legame amicale molto forte con John (che non è più apostrofato Watson). Quest’ultimo rimane un medico militare reduce dell’Afghanistan (ed è curioso notare che negli ultimi centovent’anni, almeno da questo punto di vista, non sia cambiato nulla: l’Afghanistan è sempre al centro dei maneggi delle potenze occidentali), ma ha una sorella lesbica, un blog al posto del taccuino e non è più la quieta, rassicurante persona che, a suo tempo, Conan Doyle ci aveva descritto. È emotivo e appassionato, con un debole per le belle ragazze e capace di zittire il suo spigoloso coinquilino con una sola occhiata quando questi si trova a sogghignare su una scena del delitto.
Veniamo, or dunque, all’analisi della produzione televisiva. Nella prima serie troviamo Sherlock (interpretato da Benedict Cumberbatch) che tiene il mondo a distanza, dimostrando in più occasioni un’imperturbabilità che rasenta l’insensibilità. Ha un fratello che lavora per il Governo Inglese, Mycroft (è Mark Gatiss a dare il suo volto: oltre che sceneggiatore, è anche attore) con cui ha un rapporto conflittuale; una padrona di casa che non è una governante, Mrs. Hudson; una impacciata anatomopatologa, Molly Hooper, deliziosamente naif. C’è l’ispettore Lestrade, che stima Holmes ma non sopporta il suo sarcasmo; ma soprattutto c’è Jim Moriarty: il ragno, il “consulting criminal”. Figura speculare e opposta a Sherlock. Due anime affini, dotate di un’intelligenza sopraffina, annoiate dall’ovvietà degli esseri umani. Il loro è un legame osmotico: l’uno non può vivere senza l’altro, ma l’uno vuole distruggere l’altro. Lo story arc che lega Sherlock a Moriarty inizia nella prima puntata della season premiere, A study in pink – rivisitazione del primo romanzo di Conan Doyle – e termina (forse) nella terza, palpitante, puntata della seconda serie. La prima stagione, tuttavia, prosegue con The Blind Banker, ambientato nel mondo del contrabbando, per continuare con l’adrenalinico The great Game. È questo il momento del grande showdown tra Holmes e Moriarty, è il momento in cui, per la prima volta, le emozioni trapelano nel viso di ghiaccio dell’algido detective. Una resa dei conti che culmina nell’ultimo episodio della seconda stagione: The Reichenbach falls. In essa, lo spettatore avverte in maniera potente il grande cambiamento che il protagonista ha vissuto, a cominciare dall’amicizia con John.
“I’ve no any friends. Just one.”Tra Sherlock e John si instaura un rapporto che è da ascrivere più al bromance: una sorta di fratellanza, di forte affinità, che talvolta viene confusa con un’attrazione omosessuale. In verità, leggendo i romanzi di Conan Doyle, prima, e osservando la serie televisiva poi, non vi sono tracce fondate di un legame gay tra i due personaggi. Watson appare un etero convinto – sposa Mary Morstan nel Segno dei Quattro – e Sherlock sembra essere asessuato, salvo sporadici riferimenti ad alcune donne. Egli ha stabilito dei legami affettivi, suo malgrado, di cui lo spettatore si rende conto nei tre episodi: infatti, è convinto che i sentimenti possano solo inquinare le sue facoltà deduttive, mettendolo in crisi. È ciò che accade nel racconto Uno scandalo in Boemia in cui fa la sua apparizione, l’unica donna capace di tener testa al detective di Baker Street: Irene Adler. Nella serie televisiva, l’attrice diviene una dominatrice armata di frustino e smartphone e il titolo muta in “A scandal in Belgravia”. Questo è il primo episodio della seconda serie, premiato con il Bafta, l’Oscar della televisione inglese. In esso Sherlock e Irene hanno un duello prettamente intellettuale che è insieme la ricerca di una supremazia e il segno di un’attrazione tutta mentale. Il pathos, la tensione, la forza dell’attrazione che lega i due personaggi ha una forte connotazione sessuale ma non si tratta di un sentimento inteso in maniera romantica, quanto di una sorta di riconoscimento tra intelletti simili. I sentimenti sono per lui una scoperta intensa e dolorosa, così come accade in The hound of Baskerville, in cui emozioni come paura, incertezza, rabbia, soppiantano determinazione e logica. In questo episodio si rivisita il mito del mastino stregato, immergendolo in un’atmosfera complottista che ricorda vagamente X-Files, dimostrando come anche Holmes possa sbagliarsi… e accettare l’aiuto di un amico.
Sono sempre i sentimenti che prevalgono sul detective e che lo costringono ad agire in maniera lucida e, insieme, generosa fino al sacrificio in The Reichenbach falls, una puntata con un cliffhanger che ha lasciato i fan sconvolti e smaniosi di sapere cosa accadrà. Il dialogo finale tra Sherlock e John è una delle scene più intense che si sia mai vista in una serie televisiva, ed è la chiave di volta per comprendere l’intera stagione.
"Um. Hm. You... you told me once that you weren't a hero. Um. There were times that I didn't even think you were human. But let me tell you this, you were the best man, the most human.... human being that I have ever known, and no one will ever convince me that you told me a lie. And so... there. I was so alone and I owe you so much. [...] Would you do that, just for me? Just stop, just stop this..."Il mito letterario di Sherlock Holmes è stato attualizzato e rivisitato, non tradito (come invece sta accadendo in Elementary, la produzione della Cbs dove Watson è una donna e Sherlock un tossicomane in terapia di riabilitazione. Sic.). Il fatto che i due co-autori siano grandi conoscitori ed estimatori del canon di Conan Doyle ha fatto sì che Sherlock si avvalga delle conoscenze odierne, usando internet, smartphone, laboratori scientifici, nonostante ciò, però, nulla soppianta la sua ferrea logica. Ed è questo che regala ancora emozioni ai fans: il fattore umano. La grande cura nella descrizione delle dinamiche psicologiche che muovono i personaggi rende Sherlock un unicum irripetibile, e una dimostrazione che la rivisitazione di un classico non significa saccheggio indiscriminato ma un omaggio dinamico e intelligente a storie e personaggi che hanno segnato la coscienza letteraria collettiva, regalando loro nuova linfa e nuova passione.
Inviato il 26 novembre a 20:51
Il Jeremy all'inizio dell'articolo , rimasto senza v cognome, è il compianto ( e bravissimo) Jeremy Brett.