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Da Beirut

Creato il 12 febbraio 2012 da Soniaserravalli

Voglio oggi dedicare questo post allo scrittore e insegnante Franco Berardi, al suo brano scritto a Beirut pochi giorni fa, dal Libano, incollato alla Siria e alla sua morte, dalla stessa parte del mare in cui mi trovo, quasi da farmelo sentire mio vicino. Lo scritto non richiederà appena un minuto nella vita frenetica di chi legge, ma garantisco che vale la pena e che rimarrà, come uno squarcio nella mente.

(E dall’Egitto, in breve: ieri 11 febbraio un anno dalla caduta di Mubarak, al posto di una festa è stato indetto uno sciopero nazionale di massa. Significativa coincidenza, lo stesso giorno del 1990 veniva liberato Nelson Mandela, leader della lotta all’apartheid, dopo quasi 30 anni di prigionia. Quanto alla strage allo stadio di Port Said, uno dei capi dei gruppi criminali avrebbe confessato che si sia davvero trattato di ben 600 criminali pagati per uccidere, quindi la teoria del complotto è ancora una volta confermata, dettagli in italiano qui). Vi lascio a Beirut, a Franco Berardi:

A Beirut per leggere il futuro

Yani

Nuovamente si spegne la luce. Quanto a lungo resteremo al buio questa volta? Mezzo minuto.

Ci sono queste brevi interruzioni dell’elettricità, nessuno ci fa caso. Ma ogni volta potrebbe essere la volta buona, you know what I mean. Yani. L’intercalare più frequente. Un attimo di sospensione. Un attimo prima.

Solo i computer non si spengono ai tavoli del bread republic, e ciascuno continua a digitare imperterrito la faccia illuminata dalla luce eterna del ciberspazio.

Mi sono svegliato presto stamattina alle sei e tre quarti in preda a un’eccitazione pericolosa, folle. Ieri sera al Time out con una siriana un indiano due palestinesi un’italiana tre libanesi una mezza inglese e mezza non so cosa a parlare dei Grundrisse, del general intellect, della poesia dell’esaurimento dell’energia fisica e psichica, e della demografia mondiale. Nessuno fa cenno a quello che sta succedendo in Siria perché tutti lo sanno benissimo. Duecento morti al giorno a un’ora di auto da qui, e la violenza pronta a esplodere in ogni istante all’angolo di strada per ragioni imperscrutabili. Come reagirà Hezbollah al possibile crollo del regime siriano? Come reagirà Israele alla possibile reazione di Hezbollah?

Di prima mattina vado alla pasticceria franco-svizzera il posto più delabré che conosco, che la guerra ha risparmiato e la speculazione immobiliare non ha ancora raggiunto. Per quanto? L’arcigna signora che mi porta caffè e croissant au fromage si regge a malapena nel suo grembiule bianco. Difficilmente la troverò ancora se un giorno tornerò a Beirut, ce qui va se passer bientot, j’imagine, car cette ville à capturé quelque chose de profond dans mon esprit, yani.

Dal 12 gennaio insegno alla scuola Ashkal Alwan di Beirut. Non c’è luogo migliore per cercar di capire. La città, anche se in questo momento sembra assente e distante da ciò che sconvolge il Medio Oriente, è il centro culturale di un sommovimento che coinvolge l’intera regione. Disseminata di macerie eppure vitale, attraversata da innumerevoli linee di separazione etnica, religiosa, politica, eppure cosmopolita e vibrante, Beirut ha sopportato quindici anni di guerra civile, ha resistito e respinto l’aggressione israeliana. La scuola è un punto di incontro e discussione di gente che ha vissuto in modo consapevole esperienze molto diverse. Gli studenti ai quali insegno vengono da scuole d’arte e comunicazione, da Facoltà di Architettura o scuole di cinema della regione. Sono palestinesi, egiziani, iraqeni, libanesi, un’italiana, un francese. Il giorno successivo al massacro nello stadio di Port Said uno studente egiziano è scomparso, se n’è andato adducendo vaghe motivazioni familiari. Tutti sappiamo perché Mohammed, un tempo militante islamista e ora attivista impegnato nelle lotte operaie in una città egiziana lontana da Cairo, ha smesso di partecipare alle mie lezioni.

Non sono in grado (né credo che lo sarò fra due settimane alla fine del mio corso) di esprimere un’opinione sistematica su quello che vedo. Sto raccogliendo testimonianze e interviste con giornalisti, attivisti artisti e studenti che hanno partecipato e partecipano alle rivolte che si stanno svolgendo nell’area. Cerco di leggere tutto quello che è alla mia portata (nelle lingue che conosco), ma anche di farmi raccontare quello che non posso leggere. Riferisco le mie emozioni, che parlano la stessa lingua di coloro la cui lingua non posso capire.

 

Euforico disprezzo

Domenica 5 febbraio ho intervistato Serene, una scrittrice egiziana che ha studiato a Madrid e ha vissuto a Londra per molti anni, e nell’ultimo anno ha partecipato intensamente alla rivoluzione egiziana. Mi ha parlato del cambiamento delle forme di coscienza collettiva e del cambiamento individuale, mi ha raccontato il coinvolgimento di attivisti di formazione islamica e l’effetto di liberazione mentale che il movimento ha prodotto su di loro, mi ha descritto il mutamento radicale della percezione e dell’auto-percezione femminile nello svolgersi del movimento. Il senso generale del nostro colloquio mi pare così sintetizzabile: al di là degli esiti politici, che in questo momento sono assolutamente aperti e impregiudicati, questo movimento ha ormai messo in moto un processo di dissoluzione del vittimismo tradizionale della cultura araba. Le tradizionali definizioni (fondamentalismo islamico, laicismo, democrazia ecc) non rendono conto in alcuna maniera del processo che si sta svolgendo, processo di rottura dei dogmi comportamentali oltre che mentali, un processo di attivazione della solidarietà collettiva.

La testimonianza di un attivista che ha partecipato alle lotte operaie nella regione del Delta, di un artista di Alessandria, e di un giovane professore di formazione marxista conoscitore della bibliografia operaista italiana i quale insegna storia della civilizzazione islamica mi fanno pensare che l’evoluzione del processo iniziato un anno fa a Tharir Square sfugga completamente alle definizioni politiche con cui cercano di interpretarlo giornalisti occidentali e poteri politici mondiali.

L’idea che si tratti di un movimento per la democrazia è riduttiva se non propriamente abusiva: la riduzione “democratica” del movimento ha di fatto funzionato come una trappola. Il movimento è nato da una rivolta della vita quotidiana – la lotta sociale contro lo sfruttamento e i bassi salari, la libertà sessuale, l’esplosione di comunicazione dal basso.

La traduzione in termini di “movimento per la democrazia” lo ha ingabbiato dentro il processo elettorale. Volete la democrazia? Eccovela, hanno detto i militari. Ha così vinto la Fratellanza Musulmana, alleata con i militari, e il vecchio regime si ripresenta, mentre le condizioni di vita operaia e i salari non sono cambiati, e la pressione dal basso per il cambiamento della vita quotidiana non si interrompe.

Ma il movimento non si è fermato né è rifluito quando la gabbia democratica è scattata, e oggi riprende nuovamente, e rischia di essere spinto verso la violenza, anche se l’effetto del movimento nella vita quotidiana è una riduzione del tasso di violenza sessuale, sociale e psicologica. Il sentimento di solidarietà diffuso nella vita quotidiana, la sensazione di partecipare a un processo di condivisione amichevole, sta agendo come un potente antidepressivo e come un rilassante della paura che dominava nella vita del paese.

La rottura del ciclo della paura e il dissolversi della depressione è la lezione che il movimento europeo dovrebbe urgentemente apprendere. Per quanto catastrofica possa essere la vita quotidiana per chi vive sotto la costante minaccia israeliana o per chi non ha nessuna possibilità di trovare lavoro, la condizioni di allegra estraneità e di condivisione affettiva costituiscono un irreprimibile fattore di autonomia. Il movimento non si prefigge alcunché, ma crea continuamente le condizioni per sottrarsi al governo autoritario e alla depressione. Questa è la lezione che il movimento dovrebbe apprendere in Europa, dove l’assolutismo finanziario non può essere in alcun modo sconfitto per via politica, ma può essere semplicemente ignorato dissolto azzerato da una pratica di insolvenza, appropriazione e soprattutto da una pratica di condivisione esistenziale e solidarietà che renda inoperante il ricatto finanziario.

L’allegria del disprezzo contro il dogmatismo il fondamentalismo e l’oppressione militare – questa è la lezione che dobbiamo apprendere in Europa. Disprezzo per la dittatura finanziaria, disprezzo per il ceto politico che la gestisce e la impone, disprezzo per il ceto intellettuale che la legittima. Disprezzo e allegria.

Tristezza

Con la breve eccezione dell’ultimo fine settimana piove da quando sono arrivato qui, un mese fa.

Emily, l’artista palestinese che dirige il corso nel quale insegno, mi fa notare che in realtà sotto l’euforia e l’allegria sprezzante dei frequentatori del caffe Younis e del Bread Republic e dei cento locali che offrono wireless in una città in cui la connessione è rara, lenta e saltuaria, c’è una tristezza profonda. E’ vero, lo sento, oggi che la tristezza arpiona coi suoi artigli la mia anima.

Alla galleria Agial Omar Fakhoury espone una serie interminabile di quadri pop (mi viene in mente Jasper Johns ma anche Rauschenberg). Rappresentano tutti la stessa cosa: su sfondo grigio coloratissime garritte militari, filo spinato, pneumatici accatastati, deliquescence, caos, instabilità di macerie materiche.

Saba pittrice e architetto di origine palestinese che segue i miei corsi ha partecipato alla progettazione di un campo per palestinesi, dopo la battaglia che qualche anno fa ha portato alla distruzione completa di un campo in cui i salafiti avevano installato un loro centro di addestramento militare. I suoi lavori (meravigliose macchie di bianco e nero e grigio che disegnano città appese al cielo e liquefatto dissolversi di memorie viola e grigiastre) sono la mappatura delle macerie, e il titolo che lei propone è Building for a people without land.

B like in Beirut di Roy Dib, interamente girato con una telecamera cellulare è una sequela di immagini graffiate che iniziano con una scena di Hamani and the rainbow, un film televisivo degli anni della guerra civile: una bambina che ha perduto la madre durante un bombardamento e corre lungo la spiaggia cantano una canzone talmente struggente che mi manca il respiro, e trascina per la mano un uomo impazzito e gli dice possiamo essere felici costruendo castelli di sabbia. Poi, in un delirio elegantissimo di colori azzurro scuro e bianco squillante, un party mascherato che ricorda la scena dell’orgia in Eyes wide shut.

Samar è un’antropologa palestinese che ha scritto una tesi sulla crisi dell’identità maschile di coloro che hanno vissuto la sconfitta militare e politica, che è anche sconfitta di una comunità di cui i maschi si sentono i difensori. Nelle sue parole non c’è odio per gli assassini israeliani, per coloro che hanno riprodotto l’orrore, per poter riaffermare la loro identità di maschi umiliati dagli orrendi maschi nazisti in una catena infinita di rancore maschile forever.

Macerie e rivolta

Oltre la disfatta dell’identità euforia e rimozione.

Le macerie sono dovunque in questa città, che da mille anni almeno è luogo di conflitto e di violenza di scontro e di incontro di intreccio e di reciproca emarginazione tra le culture del dogma e dell’appartenenza. Alla domanda sei musulmana o cristiana – che le faccio distrattamente dopo averla frequentata per tre settimane senza che questa domanda idiota mi venisse in mente – la persona con cui lavoro mi risponde: non sono niente. Sono palestinese aggiunge, ma questa parola non indica affatto il sentimento di un’appartenenza, ma il riconoscimento di una sconfitta dalla quale non dobbiamo smettere di imparare.

L’appartenenza è l’orrore. Tutti coloro che in questa città sono miei amici sono come lei: niente. Io sono niente. Siamo niente, yani, cioè esseri umani che possono essere tutto: qualsiasi cosa la cultura e il desiderio sappiano costruire.

Ora lo so perché Beirut è diventata in così poco tempo il posto più importante della mia mappa interiore. Perché qui c’è scritto il futuro, non il passato.

“Beirut è la risposta artistica a condizioni che stanno diventando sempre più comuni nel mondo: guerra civile, estremismo settario, sfruttamento economico, disperazione.” (Ken Seigneurie: Standing by the ruins, 2011)

Qui vedo le macerie dell’Europa che viene, la guerra civile e il nazismo dei prossimi dieci anni in Italia Ungheria, Spagna, Regno Unito, in Russia in Ucraina e in Grecia.

Ma al tempo stesso vedo la rivolta che cresce tutt’intorno, il coraggio di sfidare le pallottole dei dittatori, la gioia sprezzante di chi sa che morire non è peggio che vivere da schiavi.

“a Beirut ho acquisito il sentimento che la cultura, mentre evoca piacere, può anche preservare i valori del coraggio della generosità e della convivialità in società che sono sottoposte a conflitto civile di lunga durata.” (ibidem)

Senza retorica e con una certa malinconia gli abitanti liberi di questa città hanno imparato a vivere in modo gioioso – talvolta euforicamente – in un panorama di macerie. Noi europei abbiamo qualcosa da imparare da Beirut: dobbiamo imparare in fretta a liberarci dal vittimismo della precarietà e dell’immiserimento. Al capitalismo predone della finanza, che ogni giorno viene a predare quello che abbiamo prodotto con il nostro lavoro dobbiamo opporre una povertà felice. Non produrremo più niente per voi. Produrremo di nascosto, nelle nostre catacombe, e non parteciperemo più al vostro consumismo e alla vostra produttività criminale.

Saremo poveri perché chi è povero non ha nulla che gli si possa depredare. Ma saremo anche ricchi perché la nostra ricchezza non è fatta di accumulazione ma di disprezzo e di allegria, di poesia e di pane prodotto clandestinamente perché gli assassini del governo Monti non ce lo possano portare via. Pane biologico, buono come il vostro merdoso pane non potrà essere mai. Bicicletta, veloce nel traffico come le vostre merdose auto non potranno mai essere.

E in questa città dove si incontrano i poeti e i giornalisti che arrivano dal Cairo e da Damas, da Ramallah e da Gaza impariamo la lezione della tempesta araba, che non è una lezione politica ma una lezione poetica: la riattivazione del corpo collettivo desiderante, del corpo solidale e del corpo erotico, il disprezzo (sia pure malinconico) di Magda Allam che mostra la sua fica acerba come una dichiarazione di irriducibile autonomia, con quel nastro e le scarpine rosse che ridono e gridano nel grigio.

Qui in mezzo alle rovine imparo la lezione che servirà al movimento in tutto il mondo, e specialmente in Europa: basta col vittimismo, basta con la depressione che paralizza. Serene, la giornalista egiziana che mi ha insegnato più cose, quando le ho chiesto se non teme di poter essere vittima della vittoria islamista, mi ha detto: basta con il vittimismo che voi europei lettori di Frantz Fanon e di Samir Kassir leggete sempre nel mondo arabo. La rivolta di questi mesi spazza via il vittimismo. Non siamo vittime, siamo ribelli.

Basta compagni con il vittimismo precario. Non siamo vittime, siamo ribelli. Ce ne fottiamo del loro salario e del loro lavoro. Ruberemo, rapineremo, arrafferemo nei grandi magazzini quello che ci occorre. Sputeremo in faccia al funzionario Goldman Sachs che ha preso il posto di Silvio Berlusconi. Anche se dovremo sfidare la galera, e le pallottole. Come Carlo Giuliani. Come trecento persone al giorno, nelle città siriane, a pochi chilometri da dove sto scrivendo.

7 febbraio 2012 (Franco Berardi)

Da Beirut



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