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Da chi dipende davvero il prezzo della benzina e chi ci guadagna

Creato il 02 marzo 2011 da Coriintempesta

Uno dei problemi più importanti con cui confrontarsi, per chi oggi vuole fare Politica per davvero, è sicuramente quello dell’ignoranza. Mettiamo subito in chiaro che chi scrive non si ritiene e non è un sapiente, ma di certo è benissimo a conoscenza dei propri limiti; è proprio qui infatti il nocciolo del problema. Oggi la stragrande maggioranza di chi affronta questioni politiche dal ruolo di votante (oppure militante), è portato a raggiungere conclusioni errate e pericolose, dal fatto che i presupposti logici e informativi di cui dispone sono totalmente errati e dal fatto, non secondario, di essere perfettamente sicuro della giustezza delle proprie opinioni, lette in qualche titolo di giornale o sentite in tv. Uno dei temi in cui l’informazione minima pare mancare, anche a causa della sua difficoltà, ma soprattutto, come al solito, dalle cattive e ben celate informazioni, è la questione riguardante il petrolio e i suoi prezzi. Ci si imbatte spesso in chi dice “è tutta colpa degli sceicchi” quei ricchi che affamano la propria gente e se la spassano grazie ai proventi del petrolio (che poi cosa siano davvero gli sceicchi pare sia un mistero). La responsabilità dell’oscillazione dei prezzi viene fatta ricadere dunque su questi oscuri personaggi, cattivi, ricchi, affamatori, che per riempire le proprie tasche alzano i prezzi, facendoci soffrire a noi e gli stessi loro concittadini. Da chi dipende davvero il prezzo della benzina e chi ci guadagnaDa qui chiaramente l’idea finale che “fanno bene gli Usa ad andarli a liberare quei Paesi” che così non si può andare avanti e poi migliorano anche la vita di quei poveracci.

Tralasciando tutte le premesse e le conseguenze politiche, culturali, sociali ecc.. celate dietro queste diffuse idee, vogliamo, nel caso qualche lettore pensasse davvero tali fesserie, dire due cosette sull’oro nero e i suoi prezzi. Intanto il legame del prezzo dei carburanti con quello del barile (legame tanto caro agli automobilisti nostrani) non è affatto scontato. Le compagnie petrolifere hanno scorte di riserva di petrolio che gli dovrebbe evitare sbalzi dovuti a questo tipo di problema e, se non bastasse, esse acquistano petrolio avendo alla base contratti internazionali in cui il prezzo del greggio è fissato in anticipo; Il prezzo del carburante poi è slegato anche dai suoi costi di produzione: per esempio i costi di produzione di benzina e gasolio sono identici, ma dal 2001 al 2006 il prezzo dalla prima è aumentato del 26% e quello del secondo del 43%. Il fatto è che quando per esempio l’Eni era una azienda statale i prezzi potevano essere calmierati, ma con la sua privatizzazione e l’ingresso in borsa ha sottoposto i prezzi alle influenze delle speculazioni. Ma fare del petrolio una sola questione di carburante e una questione italiana è riduttivo. Ci sono altri fattori che fanno oscillare il prezzo del petrolio. A volte per mascherare le altre cause si cita solo quella della domanda e dell’offerta. Cina, India e gli altri paesi con grande “sviluppo” oggi richiedono enormi quantità di oro nero e quindi a causa di ciò il prezzo sale. Come causa si cita spesso anche l’instabilità internazionale, ma quasi sempre o per criticare le guerre americane o per giustificarle, cosa comunque poco utile se si vuole affrontare seriamente il problema. Infatti il cuore della questione, e non poteva essere altrimenti,  sono gli interessi delle multinazionali e le speculazioni finanziarie. Le multinazionali oggi immensamente più potenti degli Stati, riescono a far ricadere le proprie spese sui consumatori di tutto il mondo, con totale spregio del rispetto delle regole si intende. Per esempio se oggi il prezzo del brent si alza, noi la benzina la pagheremo di più anche se quella che stiamo acquistando è stata, in realtà, procurata dai petrolieri mesi e mesi prima; così ci fanno pagare di più senza motivo. Questo è solo un esempio di poco conto sul potere che le multinazionali hanno, ma rende bene l’idea di quali siano le capacità di questi mostri economici. I prezzi poi, abbiamo detto, si fanno in borsa; qui la questione si complica enormemente visto che anche per gli esperti del campo è difficile spiegare come si forma il prezzo del petrolio. Esso è legato soprattutto a fattori volatili come percezione del futuro, i future, le speranze attese, con l’ovvio risultato di mettere le redini di tutto in mano ai soliti speculatori e potenti. Detto questo non crediamo di aver spiegato una volta per tutte la questione dei prezzi del greggio, ma speriamo di aver almeno fatto crescere il dubbio in chi fino ad oggi considerava la cosa superficialmente, oppure a chi  fa politica ed informazione e  deve rendersi conto che questi argomenti non sono, per la stragrande maggioranza delle persone, affatto chiari. Tocca a noi sforzarci perché non avvengano sottovalutazioni o semplificazioni errate che vadano a favore dei soliti poteri di questo sistema atlantista; tocca a noi evitare che si dia la colpa di tutto a qualche misterioso sceicco con la barba con il bel risultato che i veri colpevoli di tutto questo possano continuare a fare i loro porci comodi dagli eleganti uffici di Washington e Londra.

M. “Guinness” P.

In Allegato una notizia di questi giorni

Un broker osserva le variazioni del mercato in Borsa (Ansa)

Che le borse mondiali in genere salgano in periodi di guerra, è cosa risaputa; e anche la rivolta libica non dovrebbe sfuggire a questa tendenza. A sostegno (con numeri e dati) di quello che, purtroppo, sembra essere diventato un luogo comune della finanza, ora arrivano due studiosi italiani, Eliana La Ferrara e Massimo Guidolin, ordinari di Economia e di Finanza alla Bocconi, che hanno analizzato 101 conflitti dal 1971 al 2004 e le conseguenti reazione dei mercati.

Risultato? I listini che registrano maggiori movimenti nei periodi di tensione sono quelle di New York e di Londra, dove «giocando» con le guerre si può guadagnare il 27% in più rispetto a chi non si muove durante le guerre. E in media, dicono i due ricercatori, i mercati borsistici nazionali hanno maggiore probabilità di reagire in modo positivo piuttosto che negativo all’avvio di un conflitto. Che, se localizzato nei paesi produttori di idrocarburi, promette grandi guadagni con i future sul petrolio, anche dell’80% in più di chi non interviene su questi mercati, sfruttando l’oscillazione del prezzo del greggio, che sale fortemente prima delle guerre vere e proprie (continua a viaggiare sopra i 100 dollari, dopo aver toccato la scorsa settimana i 110), per poi scendere quando il conflitto scoppia e si allentano le tensioni.

E l’Italia? Incrociate le dita: «I mercati borsistici di paesi che dipendono dalle forniture straniere di materie prime o fonti di energia possono essere colpiti con durezza da conflitti localizzati nei paesi esportatori di questi beni», dicono i due ricercatori, anche se «il caso libico sembra vicino allo schema normale». Almeno curioso, infine, è il commento del giornalista dell’Ansa nel lancio di agenzia che parla delle conclusioni a cui sono giunti La Ferrara e Guidolin: «La ricerca non lo dice, ma il problema è che coloro che possono utilizzare in modo rilevante questi strumenti sono spesso soggetti più o meno direttamente coinvolti nei conflitti».


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