Era il 1988 ed il Cile si preparava ad un plebiscito che ne avrebbe determinato le sorti future. La scelta pendeva tra il rinnovare l’ufficio di Augusto Pinochet e la dittatura militare che dal 1973 aveva trascinato il paese nel terrore, oppure opporsi a questa manovra a favore di nuove elezioni presidenziali. Come in ogni dittatura, l’opposizione era stata estirpata con l’uso della forza sin dai primi mesi di governo, attuando crimini disumani, torture e l’uccisione o pura scomparsa di oltre 3,000 persone. La paura aveva dato luogo ad un silenzio ingombrante che paralizzava ogni volontà di reagire e conseguentemente prolungava la longevità del regime. Ricardo Lagos, un ancora poco noto leader socialista, ex-consigliere di Allende e futuro presidente del Cile, aveva capito che per liberarsi della dittatura bisognava prima liberarsi di quella paura e conseguentemente rompere quel silenzio. In un’intervista rilasciata al programma televisivo cileno “De Cara al Pais” – prima occasione pubblica offerta all’opposizione – Lagos guardò fisso nell’inquadratura della telecamera e puntando il dito contro Pinochet, lo accusò di voler promettere al paese nuovi anni di torture, assassini e violazioni dei diritti umani. Lagos aveva capito che la televisione gli avrebbe concesso un’occasione storica di rivolgersi a tutto il popolo cileno e di dimostrare loro che la paura era un muro valicabile, soprattutto quando sostenuto da un ampio appoggio popolare. Il plebiscito spazzò via una dittatura e riportò il paese sulla strada della democrazia.
Ventitre anni dopo, il 17 dicembre 2011 Mohamed Bouazizi, un giovane venditore tunisino si dava alle fiamme come ultimo gesto di protesta nei confronti di un regime corrotto che gli aveva tolto ogni bene e per ultimo anche la dignità. Questo giovane aveva lottato fino all’ultimo contro la corruzione di un sistema che non gli offriva opportunità di lavoro, lo sfruttava e lo degradava a vendere prodotti ortofrutticoli per strada, venendo perfino maltrattato dalla polizia stessa. Darsi fuoco di fronte al palazzo del governatore divenne l’ultimo grido contro quel regime che non gli concedeva neppure un umile lavoro per mantenere la famiglia. Quel gesto avvenuto in una remota località della Tunisia, Sidi Bouzid, sarebbe rimasto ignoto al mondo intero se non fosse stato catturato dalle videocamere di cellulari e fatto circolare in Internet e successivamente in TV. Bouazizi divenne l’emblema di una sofferenza e di un’esasperazione, soprattutto condivisa nel mondo arabo, contro regimi che erano diventati sempre più corrotti a spese dei cittadini. Ancora una volta il muro di silenzio veniva abbattuto da un’immagine che esprimeva il gesto di protesta nei confronti di un sistema e della sua logica. Con Bouazizi iniziava la rivoluzione tunisina e la più lunga e per molti versi controversa “Primavera Araba”.
Il Cile e la Tunisia costituiscono due casi molto diversi tra loro, come diversa è la cultura, la storia e la politica alla base di queste due realtà. Dunque nessun tentativo di paragone è alla base di questo articolo se non la volontà di dimostrare come i mezzi d’informazione, in un caso la televisione e nell’altro Internet, abbiano cambiato il corso della storia di due paesi. In entrambi i casi l’opposizione, quella alla giunta militare di Pinochet e al presidente Ben Ali, viveva nel completo silenzio e nel terrore di ripercussioni. Pinochet aveva concesso per la prima volta all’opposizione di apparire alla televisione di Stato, con la stretta convinzione che le linee rosse non sarebbero state oltrepassate e che il plebiscito avrebbe sancito un nuovo successo. Ben Ali, dal canto suo, godeva di un’analoga certezza, garantita da un fidato sistema di controllo e di censura che vigilava su ogni forma e azione che si allontanasse dai dettami dallo Stato, soprattutto in Internet. Entrambi i casi costituirono una “svista” da parte del regime che fu pagata a caro prezzo dallo stesso.
I mezzi d’informazione hanno determinato in entrambi i paesi un risveglio della coscienza, la fine della paura e la consapevolezza di poter cambiare quella realtà. In termini tecnici questo risveglio si definisce “liberazione cognitiva”. La liberazione cognitiva è un processo che porta alla presa di coscienza che gli eventi possono prendere un corso diverso e che l’agire assieme può cambiare la società. In particolare, gli uomini oppressi da determinate strutture dominanti, come quelle rappresentate dai sistemi autoritari di Pinochet, Ben Ali o precedenti esperienze nella storia, continueranno a rimanere oppressi fino a quando continueranno a identificarsi con l’ideologia elaborata dalle stesse strutture dominanti. Questo concetto era stato precedentemente espresso da Mohandas Gandhi, il quale sosteneva che il dominio inglese in India sarebbe durato fino a quando la popolazione non si sarebbe liberata dalla paura perché quel dominio si basava sull’uso della forza. Nel momento in cui la popolazione avrebbe compreso che la liberazione sarebbe avvenuta non tramite l’uso di quella stessa forza, bensì attraverso la liberazione dalla paura che quella forza incuteva, quel momento avrebbe rappresentato l’inizio dell’indipendenza.
Questa liberazione cognitiva ha determinato la caduta del regime di Pinochet e ha segnato l’inizio della “Primavera araba”. Il mondo arabo era stato escluso dall’onda democratica che negli ultimi decenni aveva investito il Sud America, fino all’Europa e l’Asia dell’est. Una sorta d’incantesimo sembrava aver ipnotizzato gli Arabi, ridotti a burattini i cui fili venivano manovrati da sovrani sclerotici e autoritari. La paura di un regime che senza remore utilizzava la violenza e la tortura sui cittadini pur di mantenere stretto il potere, frenava non solo la reazione ma ancor prima il pensiero di poter reagire. Questa era stata la forza di tali regimi.
Sebbene alla base della Primavera araba vi siano state innumerevoli cause, ciò che ha permesso a quelle cause di trasformarsi in effetti è stato l’utilizzo dei nuovi mezzi d’informazione e di comunicazione. Il contributo maggiore in questo campo è stato l’uso di Internet e dei suoi derivati, vale a dire dei social network quali Facebook, Twitter, YouTube, oltre a blog, cellulari e tecnologie WiFi. Questi strumenti hanno permesso la diffusione di notizie divergenti dalla propaganda dello Stato, sollecitando in primo luogo le persone a riflettere e comprendere la gravità delle cose e in seguito fornendo loro il supporto per l’organizzazione e il coordinamento dei movimenti d’opposizione. Nonostante l’acceso dibattito attorno al ruolo che i nuovi media avrebbero avuto nella rivoluzione araba, è indubbio che questi hanno fornito il mezzo che ha amplificato un disagio comune ma fino ad allora taciuto e gli hanno dato voce.
Il ruolo dei nuovi media può essere più sistematicamente distinto in due fasi della rivoluzione. La prima fase è stata quella che ha diffuso immagini che potessero diventare l’emblema della crudeltà e della miseria di cui quei regimi erano capaci: questo era stato il caso nel 2009 di Neda Agha Soltan in Iran e nel 2011 di Mohamad Bouazizi in Tunisia, di Khaled Said in Egitto, del bambino Hamza in Siria. Questi possono tutti essere classificati come “incidenti” non coperti dai media nazionali, la cui notizia è stata tuttavia diffusa online infiammando gli animi di quanti conoscevano da vicino la vera natura di quei regimi. Queste immagini sono state il “click” per il risveglio dallo stato d’ipnosi e di accettazione che aveva caratterizzato questi paesi per così tanti anni. A questa fase ha fatto seguito la seconda più programmatica, caratterizzata da un periodo di proteste organizzate tramite il coordinamento e il networking online. In particolare i social media e l’uso di cellulari hanno fornito una base logistica fondamentale per la mobilitazione di dimostrazioni, la comunicazione di possibili assalti della polizia e di via d’uscita da utilizzare nel corso di queste dimostrazioni, oltre alla diffusione di notizie di violenze e crimini commessi dai regimi. In realtà queste due fasi sono state precedute da un’altra fase, pre-rivoluzionaria, in genere sottostimata ma che è invece stata indispensabile nel stendere le basi per la rivoluzione. L’uso dei nuovi media e dell’Internet ha infatti avuto bisogno di una campagna d’empowerment informatico e tecnologico che allenasse i cittadini all’uso di questi nuovi mezzi, con un orientamento contrario alla propaganda dello Stato. Questo è avvenuto sia attraverso la naturale curiosità dei cittadini, che attraverso l’influenza avuta dalla comunità di arabi ormai residenti all’estero ma con forte legami con la madrepatria e soprattutto attraverso l’azione di organizzazioni ed ONG che operavano nella regione con questi specifici obiettivi.
Anthony Shadid, un corrispondente dalla Siria che sfortunatamente non ha fatto ritorno da questo conflitto, aveva affermato: “Questa non è una rivoluzione di Twitter o di Facebook. E’ una rivoluzione che avviene nelle strade e sa di sangue”. Queste parole non potrebbero essere più vere per la Siria ma anche per tutti gli altri paesi arabi investiti dalla rivoluzione araba. La rivoluzione araba ha infatti rivelato il volto più crudele di questi regimi, così come quello più coraggioso dei cittadini. Tuttavia questa realtà non sarebbe forse mai stata raggiunta senza l’utilizzo di Internet e in generale dei nuovi media, almeno non per ora. Allo stesso modo il coraggio dei cittadini non sarebbe forse mai emerso se i nuovi media non avessero offerto loro la possibilità di scambiarsi idee e condividere disagi, di sentirsi più uniti e forti contro una minoranza che deteneva il potere e manovrava i loro destini. I mezzi d’informazione hanno infranto il regno di silenzio e sono serviti da acceleratori di trasformazioni sociali. Consapevolezza, condivisione e organizzazione sono state il prodotto di un lavoro condotto online che è poi convogliato nelle strade in un conflitto combattuto da uomini, non da clicks.