Da Reggio Emilia a Genova l'ingiustizia di Stato - (G.Giuliani)

Creato il 26 luglio 2010 da Asinistra

Il 7 luglio scorso sono stato a Reggio Emilia. Cinquant’anni trascorsi, e l’unica sentenza emessa è ancora “assolti per non aver commesso il fatto”: si saranno sparati fra loro quei cinque, ai punti cardinali della grande piazza dei Teatri, interi caricatori per lasciare per terra più di cinquecento bossoli. Lo ricordano con tristezza i familiari di Afro, Emilio, Lauro, Marino, Ovidio: tristezza per un Paese che fatica ad accettare la verità, a riconoscere la giustizia. Lo ricordano con l’orgoglio e la convinzione che i loro cari avessero fatto la cosa giusta nel posto giusto. E gli altri? I carabinieri e i poliziotti che hanno sparato le raffiche ad altezza d’uomo, che hanno preso la mira, che hanno sparato per uccidere persone inermi che volevano soltanto manifestare?

Sì, gli altri, gli assassini? Hanno solo obbedito a un ordine o ci hanno messo (anche) del loro?Se ne è discusso a Genova sette giorni prima, ricordando il 30 giugno, quando un moto di popolo impedì l’offesa alla città medaglia d’oro della Resistenza di un congresso del MSI celebrato dal gerarca fascista responsabile della uccisione di partigiani e della deportazione nel ’44 di 1600 operai nei lager nazisti. Quello stesso MSI che consentiva col suo voto determinante l’esistenza del primo governo di destra dell’Italia repubblicana, il governo Tambroni. A Genova l’attitudine violenta dei reparti fu sconfitta dalla straordinaria partecipazione giovanile e operaia, incontro di generazioni: i ragazzi dalle magliette a strisce e i padri metalmeccanici e portuali che la Resistenza l’avevano fatta e vissuta. A Reggio Emilia, si è detto, i comandi hanno voluto accreditarsi, e molti lo hanno fatto senza troppi problemi: uno degli esiti non sufficientemente valutati della pacificazione era stato che una serie di vecchi arnesi del fascismo e della repubblica di Salò erano tornati ai loro posti. Ma a sparare sono stati in molti, troppi, e allora non si sfugge alla constatazione che era emersa una voglia diffusa di vendetta per l’umiliazione subita a Genova e che aveva coinvolto anche i celerini e la truppa, quella stessa voglia di vendetta che in quegli stessi giorni fece uccidere Vincenzo a Licata; Andrea, Francesco, Giuseppe e Rosa (aveva 53 anni e stava chiudendo la finestra di casa) a Palermo; Salvatore a Catania.I due decenni successivi vedono un paio di tentativi di colpi di stato ai quali si prestano alcuni reparti; soprattutto inizia la fase dello stragismo, e poi del terrorismo ambiguo, sempre e comunque dalla parte sbagliata. L’inaccettabile elenco dei morti ammazzati (difficile non rischiare di dimenticarne qualcuno) si allunga, rendendo persino banale la distinzione pasoliniana tra proletari (gli agenti) e borghesi (gli studenti). Se non su un punto: che quello dei poliziotti doveva essere considerato un lavoro portatore di diritti. Alle straordinarie conquiste civili e democratiche degli anni settanta (aborto, divorzio, statuto dei lavoratori) si associa quella della democratizzazione della polizia: smilitarizzazione e sindacato. Ricordo ancora quella grande manifestazione della CGIL a Milano, con Luciano Lama. Poi, come succede spesso, una conquista viene considerata come acquisita per sempre: non è così.Lo abbiamo visto a Genova nel luglio 2001. Erano trascorsi 24 anni dalla uccisione di Giorgiana nelle strade di Roma e non era più accaduto che un giovane venisse ammazzato nel corso di una manifestazione. C’è chi ricorda che a Napoli, qualche mese prima, si era corso il rischio, e che i comportamenti nella piazza, alla caserma Raniero, negli ospedali non lasciavano prevedere nulla di buono. Tuttavia a Genova è proprio diverso. Ciò che avviene è preparato, la strategia è studiata. Non per niente al governo c’è di nuovo la destra. Si lasciano agire indisturbati piccoli gruppi di devastatori (molte immagini lasciano pensare che le infiltrazioni abbiano contribuito alle imprese) allo scopo di far accogliere la successiva repressione di manifestanti con l’applauso da parte di una opinione pubblica narcotizzata dai media di regime. Insomma, avviene quello che, in un’intervista concessa al Quotidiano nazionale il 23 ottobre 2008, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che se ne intende, descriverà con dovizia di particolari: “Ritirare le forze di polizia dalle strade, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città”. “Dopo di che?”, chiede l’intervistatore. “Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri.”Della violenza di Genova colpiscono la brutalità con la quale gruppi di carabinieri, poliziotti e finanzieri si accaniscono per strada su singoli manifestanti inermi e indifesi, e anche la sproporzione numerica fra i picchiatori e chi cerca in qualche modo di riportarli alla ragione. E’ solo uno sfogo di frustrazioni o c’è un nesso con la formazione e l’orientamento? Perché a Carlo, dopo averlo colpito a morte, spaccano la fronte con una pietrata per poter accusare un manifestante di averlo ucciso con il suo sasso? Perché i carabinieri dei reparti speciali festeggiano nel loro acquartieramento la giornata del 20 luglio cantando “faccetta nera” e nessuno dice niente? Perché a Bolzaneto torturano? Perché alla scuola Diaz il reparto mobile di Roma pratica la “macelleria messicana”? La chiave interpretativa sta nella testimonianza di un capitano dei carabinieri che il 20 luglio, in Piazza Alimonda, era solo tenente. In tribunale, durante il processo a 25 manifestanti, continua a parlare di guerra e quando l’avvocato gli fa notare che lui, certo, ha una mentalità militare, ma che lì non si tratta di guerra ma di ordine pubblico, risponde a voce alta: “E’ uguale, è uguale, cambiano solo gli strumenti dell’offesa”, e nel caso non si fosse capito lo ripete con foga.Chi sta sotto a volte guarda in alto. Non ricava l’esempio migliore, anzi. Tutti promossi, premiati, decorati. Quelli in carriera militare con le stellette d’oro e d’argento e le onorificenze al merito. Gli altri con incarichi prestigiosi ai vertici dei servizi. E anche quando arrivano le condanne di appello scattano subito le manifestazioni di stima da parte della destra di governo. Non c’è che ricavarne una indicazione di impunità, meglio ancora, di impunibilità.Dall’inizio dell’anno il carcere ne ha suicidati più di trenta. Sui muri di Roma un manifesto sollecita inquietudine. Ci sono le fotografie di Carlo, Federico, Gabriele, Stefano, e una scritta: il prossimo potresti essere tu. Poi picchiano i terremotati dell’Aquila e gli operai di Milano. E ci si comincia finalmente a chiedere perché. Poi il tribunale di Milano ha condannato in primo grado a 14 anni di carcere il generale dei carabinieri Giampaolo Ganzer, due stelle, capo dei ROS (Reparti Operativi Speciali), per traffici di stupefacenti dal 1991 al 1997. Uno così a Genova non poteva mancare, e infatti c’era. A uno così la fiducia del governo non poteva mancare, e infatti Maroni gliela ha accordata.Occorre ritornare agli anni del rilancio democratico. Deve farlo la politica, ma la buona politica, oggi, è merce rara.

Giuliano Giuliani


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