Emozioni è una parola che mi piace sempre meno. Svalutata, svilita, scambiata, maltrattata. Forse è davvero sempre più difficile scrivere senza scivolare nel tremendo pantano dell’enfasi inutile. Eppure il ciclismo ha bisogno di tenere una specie di diario di bordo, di quelli scritti senza troppe correzioni, con le macchie d’inchiostro sui punti perché ci si è tenuto troppo il pennino. Un diario consumato e spiegazzato come siamo noi dopo una lunga trasferta e un arrivo fiume. Ecco, via tutte quelle parole laccate. L’armonia viene da sé.
Siena non l’avevo mai vista. Questa corsa, dal vivo, nemmeno. La mia prima volta qui è stata una scarpinata infinita per quei vicoli che sembrano tutti uguali, tra la luce e l’ombra, tra i piccoli negozi negli scantinati dei palazzi antichi. E il vento. Piazza del Campo si apre d’improvviso dopo una delle tante stradine: un fascio di sole, la torre del Palazzo Pubblico che svetta nel cielo azzurro. Ci sono i ragazzi seduti che mangiano, si fotografano. E uno stormo di piccioni che vola via all’improvviso. Forse sono spaesata e incantata assieme.
Perché questa volta questo è stato un viaggio davvero beat. Un passaggio quasi per caso, itinerario mai uguale, ritorno certo per tre quarti. Arrivo uno solo. Questa piazza, questa gente che aspetta la corsa, mischiata a quelli che sono a Siena per fare i turisti e chiedono continuamente cosa sia tutto questo. Il ciclismo. Non è troppo facile da spiegare. Si fanno viaggi, si consumano chilometri, si mangia poco per un momento che sia vero. E’ una legge che vale anche nella vita. Sono a quattrocento chilometri da casa ed è come stare in famiglia. Forse sono spaesata ma estranea mai. Qui non mi è mai successo. Se c’è una cosa che questo sport è sempre riuscito a fare è quella di farmi sentire accolta ovunque, anche in posti mai visti in vita mia.
Siena è bella. Bella da spezzare il fiato. E io sono malata di entusiasmo. E io torno a rivedere quelli che non sono più solo ciclisti ma sono anche amici. Bisogna conoscere, prima di parlare, bisogna sentire le mezze parole all’arrivo e le chiacchierate senza freni condivise per caso. Perché questo è uno sport dove non ci si può fermare alla superficie: il tesoro è sotto, come tante volte succede. Più conosci, più ami. Vale per le cose importanti.
Siena è bella. Con l’azzurro di questo cielo senza una nuvola, col colore dei suoi muri antichi e il rumore dei bambini che corrono sul lastricato della piazza. Là fuori, fuori dalle mura della città che aspetta, ci sono i corridori in mezzo alla polvere. C’è Diego Rosa che la sua anima da biker non l’ha mai dimenticata. Sullo sterrato ci è cresciuto, è diventato il ragazzo che è ora. Con quelle strade ci parla, loro lo capiscono. Resta in fuga con i migliori, si alza sui pedali, non perde di vista nemmeno per un attimo le ruote di quelli davanti. E’ giovane ma ha imparato presto a stringere i denti, a ripetersi che quello non è dolore. C’è Daniel Oss che lavora per il capitano ma queste sono strade che assomigliano troppo a quelle che sogna: dure, cattive, buone a tirare fuori il meglio di te stesso. Il limite. Servono a raggiungerlo e poi a superarlo. La sua trenata non lascia superstiti. Il vento se lo mangia da solo, assieme alla polvere. Si butta in discesa, soffre a bocca aperta nei tratti più duri. E’ un’azione importante, una di quelle improvvise e adrenaliniche che si fa fatica a raccontare per intero. Covo di speranze perché quando le gambe vanno, tutto è possibile. Il motore collegato con la testa. Forse pensa già a domani, pensa già ad altri tratti, ancor più duri. Quelli suoi. E anche quando lo riprendono, lui continua ad andare a tutta, nella terra di nessuno. Instancabile.
C’è Sep Vanmarcke, gambe d’acciaio e un po’ di sfortuna nei momenti in cui non ci vorrebbe. Pedalata larga e stanca, testa che non vuole cedere. Di chilometri ne mancano e lui resta da solo per un po’: gli altri davanti, il gruppo dietro. Piazza del Campo sembra un miraggio e non lo è. Ci vuole arrivare. Non ascolta nient’altro, nemmeno le gambe che vorrebbero solo smettere.
Là fuori la poesia e il silenzio delle colline toscane, dei suoi cipressi, delle sue stradine antiche e deserte si mischia al rumore dei cambi, al breve tornado di polvere che solleva quel passaggio di biciclette, alle urla della gente che è sulla strada, tra una campagna e l’altra.
Ai piedi delle mura della città sono in tre. Lo dice lo speaker. Alejandro Valverde, Zdenek Stybar, Greg Van Avermaet. Anche loro non mollano mai, abituati a resistere. A tutto.
Soffia più forte e più freddo il vento. E Greg scatta appena dentro la città, sul lastricato della viuzza stretta che porta a Piazza del Campo. C’è Santa Caterina ancora da fare, l’ultima schiena di mulo che straccia le gambe. Ma Greg morde. E l’attesa guardando l’arrivo vuoto sembra infinita. Stybar gli sta dietro. Valverde no, questa volta cede. Rimangono loro due e gli ultimi metri. Fortuna, sfortuna. Il vento cambia in fretta, nel bene o nel male. Zdenek ha perso una Roubaix per una distrazione sul Carrefour de L’arbre e l’anno scorso, in una volata, per colpa di una transenna, ha strisciato la faccia contro l’asfalto. Una maschera di sangue. Adesso scatta davanti al suo ultimo avversario. Adesso Piazza del Campo è sua. Se la stringe nel pugno alzato, si prende quel vento.
Greg subito dietro. La sua fortuna arriverà. Arriva per tutti, tutti quelli che non lasciano andare niente, non abbandonano le strade già scritte. Spezza il fiato, questa corsa. Specialmente gli ultimi metri: un calvario prima del paradiso. Spezza il fiato, assieme alle gambe che arrivano di legno e implorano le mani del massaggiatore. Spezza il fiato per quanto è bella, dura e cattiva e splendida.
Quello che resta di quella giornata e che ancora si vede se ne andrà presto con l’acqua delle docce. Sapone per togliere la polvere della strada e per rendere più buoni i pensieri di fatica, di semisconfitta, di volevo fare di più. Le colline tornano silenziose, dipinte dalla luce dell’ultimo sole, coi cipressi scuri immobili nel vento. Forse anche la piazza si prepara alla sera. Non lo so, sono già lontana. Un viaggio intenso, con poche pause. Un volo di piccioni contro l’azzurro, la musica di un negozio affacciato sull’antico chiostro di un palazzo, un ulivo in un piccolo giardino ombroso chiuso da un cancello di ferro battuto, un uomo che chiede cosa stia succedendo. E’ il ciclismo. E a volte è davvero difficile da spiegare, bisognerebbe stare solo in silenzio e lasciare che ti scorra dentro. Ti si spezza il fiato anche così, restando immobili. Incantati.