Ricordate i colpi d’ariete della retorica del “fare presto” che si abbattevano sulle mura della nostra cittadella politica? Il sentimento d’urgenza sembrava possedere quella forza di propulsione che non solo fa crollare le mura del potere, ma sa anche fornire il nuovo governo “rivoluzionario” di energia sufficiente ad approfittare dello sbandamento iniziale della classe politica e dell’incertezza delle “parti sociali” per mettere tutti davanti ai “virtuosi” fatti compiuti, e per imporsi così nel paese. Il Governo Monti in realtà avrebbe dovuto agire con l’efficacia di un Gabinetto di Guerra, salvando appena appena le forme della correttezza istituzionale, se avesse voluto essere coerente con la sua natura. E questo perché era figlio non tanto di un disegno ma di una pulsione antidemocratica a lungo covata che solo circostanze eccezionali avevano fatto trionfare. Sennonché sono bastati pochi giorni per capire che la brutta pulsione non era affatto accompagnata dalla ferrea volontà del rivoluzionario pieno di buoni propositi. Rivoluzionari a metà, il governo e i suoi laudatores hanno cominciato a cincischiare e a temporeggiare. La paroletta magica del giorno, “equità”, una di quelle infatuazioni lessicali a comando cui l’Italia va periodicamente soggetta, è salita sempre più frequentemente alle labbra dei nuovi ministri. Il governo antipolitico è diventato politico in poche settimane. E la manovra che ne sta uscendo ha tutta l’aria di una stangatina meno attenta agli interessi del paese che agli equilibri parlamentari: non una manovra di “qualità”, ma una caricatura appesantita di quanto fatto dai governi tremontiani, tavoli di discussione compresi, con una accelerata sulle pensioni compensata, come fanno a volte gli arbitri di calcio per i rigori o le espulsioni, dall’inasprimento della pressione fiscale. Siamo ancora fermi ai saldi contabili, o giù di lì, in attesa che il sentiero stretto che stiamo percorrendo si allarghi grazie ad una congiuntura internazionale favorevole, di cui per ora non si vede neanche l’ombra, che ci permetta di affrontare con più agio le mitiche, incisive riforme.
Questo è un male, ma è anche un bene. 1) E’ un male perché dimostra come l’uomo della strada, e con lui la classe politica e le parti sociali che lo rappresentano abbastanza fedelmente, non sia ancora capace di uscire dalle sue contraddizioni, e tanto urla contro le ingiustizie quanto è chiuso nella difesa dei suoi interessi particolari. I momenti difficili sono quelli meno indicati per puntare il dito contro qualcuno o qualche gruppo sociale, ma succede il contrario quando regna la sfiducia, quando la diffidenza si nasconde dietro mielate parole come “equità” e simili, e quando, nel contempo, si spera nel “deux ex machina” della crescita economica progettata a tavolino, oltre che in quello del tesoretto recuperato agli evasori fiscali. Solo che il debito pubblico non ci permette alcuna manovra espansiva, tagli alla tassazione nel breve-medio termine lo aggraverebbero, una bella potatura alla pubblica amministrazione avrebbe anch’essa nell’immediato effetti recessivi: siamo alla dittatura dell’oggi e al primum vivere, sempre che una volta passata la buriana si abbiano idee chiare e volontà di rigare dritto. Realisticamente, possiamo solo sperare in una stagnazione virtuosa, non in una fantomatica crescita, i nudi numeri della quale nascondano un risanamento sostanziale della struttura sociale ed economica. 2) E’ un bene perché dimostra come le scorciatoie antipolitiche alla politica prima o poi siano ricondotte. Sarebbe una beffa, per Monti, se il suo governo dovesse trovare nel partito di Berlusconi la colonna portante in parlamento, ma l’ipotesi è del tutto realistica. Lo stesso Berlusconi potrebbe essere interessato ad una prova di forza indiretta col partito di Bersani, cosciente che, stando così le cose, se i malumori non saranno pochi nel Pdl, essi saranno molto maggiori in un Pd incapace di costruire una “ragionevole” unità socialdemocratica a sinistra, e perciò costretto a correr dietro da una parte all’ampia schiera della sinistra antagonista e dall’altra a cercare l’innaturale alleanza tattica col centro che gli ha fatto abbracciare l’ipotesi Monti. Al partito del Cavaliere questo ostentato “senso di responsabilità” risulterebbe vantaggioso per il futuro anche nel caso l’esperimento Monti dovesse fallire, in quanto dimostrerebbe l’impraticabilità di soluzioni moderate anti-berlusconiane. Inoltre, una Lega nuovamente secessionista sarebbe col tempo condannata all’emarginazione, e potrebbe spaccarsi: in ogni caso una grossa parte del suo elettorato sarebbe destinata a confluire in quello della creatura berlusconiana.
[pubblicato su Giornalettismo.com]
Filed under: Giornalettismo, Italia Tagged: Giulio Tremonti, Lega Nord, Mario Monti, Partito Democratico, Popolo della Libertà, Silvio Berlusconi