Ieri volevo parlare di Resistenza e oggi mi sarebbe piaciuto parlare del locale Masaniello incaricato di condurre il gregge italiano alle urne perché voti il proprio macello e si adegui al regime oligarchico che è nuovo come un paio di mutande usate per secoli. Non volevo fare nulla di retorico e insieme nulla di troppo complicato, ma la tentazione di mettere insieme le cose è troppo forte e dunque mi ci proverò.
Bisogna però risalire molto indietro, a due mesi dopo l’iscrizione di Napolitano al guf e precisamente al 14 dicembre del 1942 quando la rivista americana Life scrive: “La netta tendenza in seno al regime fascista è di liberarsi di Mussolini e dei filotedeschi, ma di conservare il sistema. Oggi questa è l’idea dei grandi industriali italiani, condotti, a quanto viene riferito, da Ciano, dal conte Volpi, dal senatore Pirelli. In altre parole, un cambiamento del fascismo protedesco in un fascismo proalleati. I gerarchi fascisti sono molto impressionati dal fortunato voltafaccia di Darlan da Vichy verso gli alleati”.
Il contesto è quello di una guerra che dopo la sconfitta di El Alamein diventa drammatico: i tedeschi sono impegnati in Russia con oltre 5 milioni di uomini e non possono supportare in maniera massiccia le deficienze italiane in fatto di armamenti e di capacità militare nel suo complesso. Del resto già dopo i primi mesi di conflitto la campagna di Grecia aveva scoperto il bluff di un’Italia imperiale che le prendeva sonoramente da un piccolo Paese oltretutto diviso e impreparato: Mussolini stesso si rese conto del punto a cui vent’anni di fascismo avevano portato il Paese e con lui la corte sabauda e la classe dirigente. Così gli stessi industriali che in combutta col fascismo e le sue avide gerarchie avevano fatto immensi profitti imponendo di fatto armamenti inadeguati e enormemente inferiori alle stesse possibilità tecnologiche del Paese, di fronte ai primi cedimenti della macchina bellica tedesca, cominciano a pensare che è possibile tenersi il fascismo e magari cercare in qualche modo di fare una pace separata o al limite di passare dall’altra parte.
Anche il re e i suoi fedelissimi la pensano così da tempo anche se sono molto riluttanti a fare qualcosa che possa mettere in crisi un regime nel quale l’oligarchia italiana era stata al sicuro da scuotimenti. Cominciano a vederla in questo modo anche i gerarchi molti dei quali – come il 25 luglio del ’43 dimostrerà – pensano di poter sbarazzarsi di Mussolini e di avere un futuro politico dentro un fascismo appena un po’ rimbellettato. Ma non viene fatto nulla di concreto, la macchina per liberarsi del duce, facendone un capro espiatorio, venne messa in moto da un evento imprevisto e lontano dai fronti: gli scioperi del marzo 1943 in tutto il nord Italia. Questo diede il segnale che il regime, così com’era non era più in grado di difendere efficacemente gli interessi delle classi dirigenti e dunque bisognava cambiare qualcosa perché tutto rimanesse uguale. E non è un caso che la repressione abbia raggiunto il diapason proprio durante il mese di Badoglio nel quale furono uccisi 93 manifestati e più di 500 vennero feriti gravemente.
Fu il movimento di Resistenza che si sviluppò a partire da quegli scioperi, soprattutto quello di parte comunista, che davvero ruppe le uova nel paniere e fece prendere coscienza del fatto che quantomeno i cambiamenti dovessero essere più radicali di quelli che si pensavano coinvolgendo la stessa forma dello stato. Mantenere un fascismo dal volto umano, supportato dagli alleati dispostissimi del resto a dare una mano in questo senso, forse non era possibile, nonostante gli sforzi finanziari messi in piedi sia dagli americani, sia dagli industriali per ingaggiare nella lotta il mondo cattolico, liberale e/o azionista come contraltare.
Certo l’Amgot il governo militare alleato delle zone occupate fu di fatto una prosecuzione del fascismo, visto che furono allontanati solo i fascisti molto noti, ma vennero conservati integri gli assetti e gli uomini tanto da suscitare anche rivolte popolari. Certo nel gennaio del ’44 Badoglio, prese contatti con Stalin -col benestare angloamericano – perché il Partito comunista entrasse nel governo e collaborasse con i cattolici, ma egualmente non fu possibile “normalizzare” la Resistenza, paradossalmente anche a causa del fatto che gran parte dell’Italia era ancora di fatto governata e tenuta dai tedeschi sotto la facciata della Rsi. Alle volte non tutto il male viene per nuocere e proprio l’accanita resistenza resistenza tedesca che ritardò di quasi due anni la liberazione della penisola contribuì a costruire una coscienza politica e a determinare gli avvenimenti successivi: la Repubblica e la Costituzione.
Però appare chiara una cosa: gran parte degli sforzi della classe dirigente durante e il conflitto e il dopoguerra non furono volti a liberarsi del fascismo che aveva portato alla catastrofe bellica, quanto a mantenerne le premesse sia pure in forma più accettabile, lavorando nel sottosuolo della corruzione, del piduismo, dell’opacità stragista resi possibili dal mondo bipolare. Passati poi i trent’anni e passa di “compromesso keynesiano” del capitalismo quegli stessi fantasmi sono riemersi alla luce del sole e hanno man mano avvelenato le istituzioni democratiche, non più garanti di relativa pace sociale, ma fastidiosi ostacoli per il profitto, disseccato le speranze, reso l’Europa subalterna al liberismo e gli stati subalterni ad istituzioni estranee alla democrazia. Tutte cose che sono andate di pari passo con la progressiva svalutazione della Resistenza stessa, talvolta con la sua messa sotto accusa da volgari lanzichenecchi del potere, talvolta sminuita sotto le spoglie di serietà accademica. Ed è così che l’Italia di Badoglio si reincarna, dopo due tentativi falliti, in Renzi, populista telefonato e demagogo da twitter, insieme agli scialbi clientes dei partiti attaccati alla poltrona e privi di cervello come le ascidie che perdono la rete neuronale dopo aver trovato lo scoglio a cui attaccarsi. E invece di un presidente c’è un simil re. Ma purtroppo non ci sono scioperi che lo mandino a Brindisi.