Magazine Lavoro
«Il mio lavoro È anche quello del mio fidanzato. Mi piace molto, ma quello che guadagniamo entrambi (considerando che ci si porta sempre del lavoro a casa e spesso i weekend si passano al computer, notti in bianco comprese, anziché riposarsi) non riesce a giustificare la fatica, la stanchezza fisica, la perdita del tempo libero, la difficoltà di concedersi una vera pausa e l’impossibilità di pensare (soltanto pensare) di poter prendere insieme una casa. Mi piacerebbe che questo lavoro non ci sacrificasse, ma ci permettesse di diventare grandi con dignità». Chi scrive così è una trentunenne di Catania che firma solo con le iniziali perché la libertà di espressione in questo Paese è riservata solo a chi è garantito nei suoi diritti e non ha nulla da temere dai propri datori di lavoro.Lo scritto della giovane catanese è tratto da un’inchiesta sui lavoratori precari dell’editoria curata da Daniele Dieci, Carlo Fontani, Florinda Rinaldini (Ires Emilia-Romagna) per il Sindacato lavoratori della comunicazione della Cgil (Slc). La stragrande maggioranza (il 74%) sono donne e la stragrande maggioranza sono giovani (tra 25 e 39 anni). Hanno, naturalmente, contratti provvisori. Il 23,7% contratti a progetto, il 21,9% collaborazioni occasionali, il 20,3% la cosiddetta «cessione diritti d’autore», il 12,6% partita Iva. Una minoranza, il 7,7%, sono lavoratori dipendenti.Racconta una ragazza di 34 anni, romana: «Nell’arco della mia carriera ho avuto: contratto a tempo determinato, partita Iva per due anni (falsa), ritenuta d’acconto, contratti a progetto... ». Con guadagni irrisori: il 55,7% percepisce una retribuzione lorda annuale inferiore ai 15mila euro, il 14,3% guadagna meno di 5mila euro nel corso dell’anno. Con differenze pari a 12 punti tra femmine e maschi. Racconta ancora la romana: «Qualche anno fa in una nota casa editrice romana, di piccole dimensioni ma molto apprezzata, sono stata pagata 600 euro netti con contratto a progetto per lavorare full time in ufficio con orari di lavoro rigidi. Negli otto anni in cui ho lavorato ho avuto tre momenti di stop: uno di 4 mesi, uno di 2 e uno di 6 mesi, durante i quali non ho potuto usufruire di alcun tipo di ammortizzatore sociale». Cosi scrive un trentenne milanese: «A mano a mano che si percorre la catena dei committenti (editore; studio editoriale; freelance) il grado di sfruttamento aumenta. In questa situazione, non solo lavorare è difficile e frustrante, ma la qualità del prodotto ne risente pesantemente... ».Un sistema di lavoro che dovrebbe essere trasformato. E ci vorrebbe una forte iniziativa sindacale anche se il rapporto tra questi «operai intellettuali» e le organizzazioni sindacali è stentato. Testimonia una di loro: «Ai collaboratori non spetta il premio produzione che spetta ai dipendenti. Noi collaboratori siamo trattati come lavoratori di serie B rispetto ai dipendenti. Non abbiamo neanche diritto ai buoni pasto, anche se ci viene richiesta una frequenza quasi quotidiana in azienda. Non partecipiamo agli eventi aziendali organizzati con gli agenti. Nella nostra sede, noi collaboratori di redazione siamo stati relegati tutti (o quasi) al piano -1, lontano dalle redazioni. In generale non c’è unione tra i collaboratori, ognuno fa per sé. Per timore di non vedersi rinnovato il contratto, non si trovano strategie comuni di sciopero o di rimostranza. I sindacati e i sindacalisti ci ignorano, pensano solo agli interessi dei dipendenti assunti. Anche in caso di sostituzione dipendenti/maternità l’azienda impone contratti a progetto, invece del tempo determinato. Se andiamo in ferie, quasi dobbiamo chiedere il permesso. Mentre ai dipendenti impongono di prendersi giorni di riposo. Sul nostro futuro regna l’incertezza. Per una donna di 30 anni si pone anche il «problema» di quando/se fare figli».Fatto sta che solo il 14,1% dichiara di essere iscritto a un sindacato. Eppure non fuggono. Spiega un’altra di loro: «Sono una redattrice. È un lavoro sporco, a tratti alienante, spesso ansiogeno, e drammaticamente sottopagato, ma è il lavoro più bello del mondo. Credo sia questa la nostra condanna».Un tipo di condanna che ora si vorrebbe sperimentare per tutto il mondo del lavoro, come dicono le ultime cronache, da coinvolgere nel prossimo Expo 2015 a Milano. E dovrebbe essere la fiera della modernità?
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