Planck contro tutti. Be’ non proprio, anzi: i suoi risultati continuano a smussare asperità e sorprese, restituendoci un universo sempre più in accordo con quanto previsto dai modelli. Ma così facendo finiscono inevitabilmente per mettere qualche altro esperimento sulla graticola. La settimana scorsa è stato il turno di BICEP2, il cui team, al termine d’un lavoro a quattro mani con la squadra di scienziati di Planck, ha dovuto porre, se non la parola fine, quanto meno una pesante ipoteca sulle speranze di trovar traccia di onde gravitazionali nei dati fino a oggi raccolti dal telescopio antartico. Oggi tocca invece al satellite cosmologico che lo aveva preceduto in L2, la gloriosa sonda WMAP, fare le spese dell’accuratezza senza precedenti con la quale Planck sta tracciando la mappa dell’universo primordiale. I dati in polarizzazione del fondo cosmico appena pubblicati mostrano, infatti, che quella fase della storia cosmica nota come “reionizzazione” va postdatata di almeno un centinaio di milioni di anni rispetto a quanto suggeriva il satellite NASA.
La cosa non è di poco conto. La reionizzazione va infatti a braccetto con l’epoca di accensione delle prime stelle. Ma per capire meglio cos’ha visto Planck, occorre anzitutto ricordare come lo ha visto: attraverso, appunto, la mappa della polarizzazione dei fotoni del fondo cosmico a microonde (CMB). Ora la polarizzazione, se interrogata in modo opportuno, sa essere una testimone preziosa e insostituibile di quel che accadde all’alba del cosmo. Per esempio, conserva memoria dello scontro – o meglio dell’interazione – tra raggi di luce e particelle, tra fotoni ed elettroni.
E quand’è che questi scontri sono avvenuti? In realtà avvengono in continuazione, ma in due fasi particolari della storia dell’universo erano molto frequenti e significativi. La prima fu durante l’era precedente la ricombinazione, avvenuta 380mila anni dopo il big bang: quando le particelle, prima così addensate che nemmeno la luce riusciva a farsi largo, con la formazione dei primi atomi d’idrogeno finalmente si separarono, rendendo l’universo per la prima volta trasparente. E lasciando i fotoni sì liberi di viaggiare, ma con un forte “imprinting” dalle interazioni precedenti – sotto forma, come dicevamo, di polarizzazione – che ancora si portano appresso. La seconda occasione si presentò all’epoca, appunto, della reionizzazione, quando la radiazione delle prime stelle strappò gli elettroni agli atomi del gas d’idrogeno, rendendoli così di nuovo ionizzati, dunque reionizzati. Rimessi in circolazione e dunque di nuovo liberi d’interagire con i fotoni, sebbene assai più di rado che nel brodo primordiale post big bang, gli elettroni influenzarono così una seconda volta la polarizzazione del fondo cosmico.
Ora, mentre per la data della ricombinazione, anno più anno meno, sono pressoché tutti d’accordo, su quando avrebbe avuto inizio la reionizzazione è buio fitto. Da una parte, come dicevamo, ci sono i dati di WMAP che collocano il fischio d’inizio attorno ai 450 milioni di anni dopo il big bang. Dall’altra, le osservazioni delle galassie più antiche, come quelle compiute dallo Hubble Space Telescope, mostrano che erano sì alquanto precoci – forse già in formazione addirittura 300 o 400 milioni di anni dopo il big bang – ma all’epoca comunque troppo deboli per essere state in grado di reionizzare il cosmo da sole. In altre parole, se la reionizzazione fosse avvenuta presto quanto ritenuto da WMAP, ci ritroveremmo con un punto interrogativo di quelli enormi: cosa l’ha causata?
Ecco dunque che la nuova datazione di Planck diventa fondamentale. «Anche dopo che la CMB è stata libera di percorrerlo, l’universo è rimasto a lungo assai diverso da quello in cui viviamo oggi: è trascorso molto tempo prima che potessero formarsi le prime stelle. Ora le osservazioni di Planck della polarizzazione della CMB», spiega Marco Bersanelli, dell’Università degli Studi di Milano e associato INAF, «ci dicono che quell’era oscura è terminata circa 550 milioni di anni dopo il big bang. Dunque oltre 100 milioni di anni più tardi di quanto si pensasse. E se 100 milioni anni possono sembrare un intervallo trascurabile rispetto all’età complessiva dell’universo, che ha quasi 14 miliardi di anni, in realtà rappresentano una differenza significativa proprio per quanto riguarda la formazione delle prime stelle».
Una differenza, come abbiamo visto, cruciale, perché se la reionizzazione ha avuto inizio più tardi, allora è plausibile che a provocarla siano state sufficienti le prime stelle e le prime galassie, senza la necessità di far ricorso a imbarazzanti – per quanto eccitanti – componenti “esotiche” non meglio definite.
Per saperne di più, ingrandisci la timeline ricostruita da Planck:
Crediti: ESA/Planck
Scarica la release 2015 dei risultati di Planck
Guarda su INAF-TV l’intervista a Fabio Finelli:
Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Malaspina