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Eppure ormai 40 anni fa sono proprio i metalmeccanici, guidati da Bruno Trentin, a gettare le basi per un progetto unitario che sembra poter imprimere un corso nuovo alla storia sindacale. Sono i tempi, appunto, della cosiddetta “unità a pezzi” che trova opposizioni nella Cisl e nella Uil ma anche nella Cgil. La principale categoria dell’industria ha l’ambizione non di dar vita ad un sindacato corporativo, isolato dalle Confederazioni, ma capace di far da locomotiva. Capace di trascinare l’intero movimento dei lavoratori verso l’unità sindacale organica. Per costruire non un sindacato unico, ma un sindacato unitario e pluralista.
Una scommessa ambiziosa non nata a tavolino. Nata, semmai nel vivo delle prime lotte unitarie del 1960. Quando la Fiom tiene il proprio tredicesimo congresso nazionale, con segretari Luciano Lama e Piero Boni a Brescia. E’ stata scelta la città lombarda perché li, in una grande fabbrica della Fiat, la Om-Fiat, i rappresentanti della Fim-Cisl in Commissione Interna hanno rifiutato di accettare la discriminazione nei confronti dei rappresentanti della Fiom. Una vicenda di vivace crescita unitaria che rompe col passato. Ho un ricordo personale di quella stagione. E’ il titolo di un servizio apparso in prima pagina sul quotidiano “l’Unità”, di cui ero corrispondente (da Brescia): “Sciopero all’Om-Fiat al grido di libertà”. Così come ricordo bene le aspre polemiche nei confronti dei rapporti unitari tra il segretario Fim, Franco Castrezzati, e il segretario Fiom Morchio. Con interventi disciplinari richiesti dalla Federazione del Pci e un intervento normalizzatore di Rinaldo Scheda spedito dal centro Cgil per porre fine a quelle che sono considerate pericolose “fughe in avanti”. Ormai però il germe unitario si va diffondendo, parte dal basso e trova uno sbocco formidabile nella lotta degli elettromeccanici, sempre nel dicembre 1960, a Milano.
La spinta si evolve rapidamente nei vertici della Fim con l’affermazione al Congresso di Bergamo del 1962 di giovani come Carniti, Gavioli e Pagani. Mentre alla guida della Fiom arriva Bruno Trentin accanto a Piero Boni. L’intesa unitaria a questo punto non è più a macchia di leopardo, trova caratteristiche nazionali. Nel 1966 è varata la piattaforma unitaria per il contratto dei metalmeccanici. E’ la prima esperienza del genere dopo la frattura del 1948. Ci sono voluti quasi 20 anni.
Quello che mette piede però non è solo un progetto basato sui buoni rapporti personali tra dirigenti illuminati. E’ basato su tre elementi ai quali si cerca di dare sostanza con scelte coraggiose: democrazia interna e partecipazione consapevole di iscritti e lavoratori, autonomia da partiti, governi e controparti, capacità di proposta. Una tappa di questo lungo percorso ha luogo nella Conferenza del 1967 promossa dalla Fiom a Sesto San Giovanni. Qui vengono gettate le premesse per il rinnovamento democratico del sindacato. Esso riguarda innanzitutto le strutture di base, con la proposta del superamento delle Commissioni Interne. E’ riconosciuto il loro ruolo glorioso e importante ma anche occasione di divisioni laceranti. Occorre, intanto, promuovere i giovani e dar vita alle sezioni sindacali aziendali. Il sindacato ha bisogno di una “febbre salutare”. Commenterà più tardi Trentin: “Erano i prodromi per un rinnovamento più radicale della rappresentanza sindacale che maturò poi con i consigli dei delegati”. L’inizio di un processo guardato con diffidenza dalle Confederazioni e anche dai partiti. Il Pci e la stessa Dc temono di perdere i propri spesso intensi legami con il mondo del lavoro. Diverso l’atteggiamento del Psi anche per un minor radicamento e comunque per una maggiore sensibilità rispetto a motivazioni libertarie e autonomistiche.
Tutto si accelera, ad ogni modo, con la nascita dei primi delegati sindacali, eletti su scheda bianca, espressione di quello che è chiamato il gruppo omogeneo. Sono esperienze che vanno da Torino al Veneto e permeano l’autunno caldo. Entrano nella Uilm riunita a Congresso a Venezia attorno a Giorgio Benvenuto, mentre al Congresso di Sirmione della Fim Pierre Carniti afferma la propria egemonia. Una ventata che non lascia indenne nemmeno la Cgil: al Congresso di Livorno del 1969 la linea unitaria ma prudente di Agostino Novella non è in piena sintonia con l’accelerazione di un dirigente come Vittorio Foa ma anche di un Luciano Lama. La mozione congressuale conclusiva sostiene che “l’unità è una scelta definitiva da perseguire fino in fondo e senza esitazioni, non come somma delle tre organizzazioni ma come costruzione di un nuovo sindacato”.
Ha inizio, così, una fase di grandi lotte unitarie (contratti, pensioni, gabbie salariali, investimenti al Sud) ma anche di scelte che anticipano l’unità organica, come i Congressi di scioglimento promossi dai metalmeccanici. Una fase, però, accompagnata da dispute accese soprattutto all’interno di Cisl e Uil, come racconta efficacemente Fabrizio Loreto nel volume “L’unità sindacale” (Ediesse). Anche nella Cgil, del resto, c’è chi teme che l’impegnativa avanzata di pezzi del movimento (non solo i metalmeccanici) metta in pericolo l’obiettivo più generale di un sindacato confederale unitario e si risolva in una spaccatura. Nasce da qui la proposta vincente di una “federazione” come trampolino, poi rivelatosi assai fragile, verso un futuro più solido. I metalmeccanici si adeguano promuovendo la Federazione lavoratori metalmeccanici, la FLM, provvista di una propria sede comune a Roma. Pierre Carniti racconta oggi di un teso colloquio con Bruno Trentin, portatore delle esigenze confederali, ma pronto, in caso di una opposizione dei dirigenti Fim e Uilm, a mantenere lealmente fede al patto stipulato con i Congressi di scioglimento. E’ la rinuncia alla cosiddetta unità a pezzi. Rimane però intatto, nel pensiero e nell’azione di Trentin e di molti altri l’obiettivo di non disperdere idee e proposte che avevano fatto intravedere la possibilità di dar vita ad un soggetto unitario non esposto ai rischi di separazioni.
Un obiettivo frutto di elaborazioni alimentate da centinaia di esperienze vissute. Spiega lo stesso Trentin (nei libri-Intervista “Il sindacato dei consigli” e “Il coraggio dell’utopia”) come la prima cosa necessaria ad un progetto unitario sia la determinazione di regole. Regole che consentano “la convivenza di tradizioni culturali diverse ma non ossificate, in un contesto di democrazia, fondata sul principio di maggioranza ma anche sul mandato ricevuto da tutti i lavoratori coinvolti dall’iniziativa del sindacato”. E’ questo un modo per affermare una vera autonomia e l’adozione di una fonte di legittimazione non dipendente da forze estranee alla vita sindacale come i governi e i partiti. E alla domanda su come opporsi ai possibili rischi di un sindacato di opposizione e un sindacato di governo risponde: “E’ un pericolo che non si combatte con l’esorcismo o con un nuovo integralismo della Cgil… Si combatte con una proposta unitaria forte”.
C‘è da dire che nella concezione trentiniana non c’è la ricerca di un’egemonia di un’organizzazione sull’altra. Semmai l’idea di una contaminazione, un condizionamento reciproco, la disponibilità al mutamento, con “l’incontro all’interno del sindacato di culture e di ideologie diverse e il loro confronto creativo”. La democrazia interna “diventa il mezzo con il quale la diversità degli apporti culturali e politici supera lo stadio di una mediazione fra potenze per tradursi in un processo effettivamente creativo”. Non dunque il prevalere della logica del contarsi e del ridurre il rapporto tra le diverse componenti “ad un rapporto aritmetico”. Una concezione che preferisce alla scelta dei “referendum” capaci di far esprimere al mondo del lavoro solo dei “si” o dei “no”, un percorso democratico che inizia da un confronto propositivo sulle piattaforme rivendicative e poi sulle scelte finali, prima degli accordi definitivi.
Sono presupposti ancora validi oggi? Certo in questi tempi difficili un progetto unitario cozza contro una realtà che sembra immodificabile. I sindacati – non sembri un paradosso – oggi sono più liberi, più autonomi, non condizionati dalla presenza di grandi partiti di massa radicati nel mondo del lavoro. Eppure è abbastanza facile vedere nell’atteggiamento di Cisl e Uil la ricerca di una legittimazione nelle istituzioni governative e imprenditoriali. Magari con la convinzione che, dati i rapporti di forza, non ci sia altro da fare per tentare di incidere nelle scelte del centrodestra. Col rischio però di veder restringere, prima o poi, una fonte di legittimazione alternativa, quella cara a Trentin e derivante dal mondo del lavoro, sia pur oggi così trasformato e spezzettato. Nasce da qui il rischio di un nuovo 1948, senza bisogno di traumatiche scissioni? Se fosse così bisognerebbe aspettare altri 20 anni.
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