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Dalla cantina /1

Da Marcofre

Nel 2009 riprendo a scrivere dopo una pausa di cinque anni. Il primo racconto che balza fuori è questo, e nemmeno ricordo più il titolo (falso, ma era talmente brutto che fingo di averlo scordato).
Lo spedisco in giro assieme ad altri due, e un editore mi risponde. Non va bene, e sono d’accordo. L’inizio sembra promettente, ma dopo poche pagine tutto si svela, e di fatto il lettore non è più spinto a vedere cosa succede perché… lo sa.
Non è recuperabile. Rimetterci le mani mi è impossibile. Certe storie o riescono oppure devi abbandonarle, e questa è una di quelle. Non credo di scrivere così (male) adesso, ma ribadisco: da cinque anni avevo smesso di leggere, di scrivere, lo buttai giù rapidamente, lo rilessi e lo riscrissi credo tre o quattro volte. Sì, c’è l’influsso di Sciascia (almeno credo).

Buona lettura (spero).

Quella mattina Osvaldo Spaccapietra, di anni 68, ex portuale della compagnia “Pippo Rebagliati”, lasciava la propria abitazione di via Verzellino, per il piccolo podere. Vi si recava per dare da mangiare al suo cane, un terrier di tre anni, e constatare forse per l’ennesima volta, o forse no, quanto fosse difficile spremere qualcosa da quel fazzoletto di terra.
Lì aveva costruito un magazzino abusivo col tetto di lamiera, dove ricoverava i pochi attrezzi; e lì si aggirava per ore e ore tra i pochi e rachitici alberi da frutto, e miseri ortaggi, crollando la testa bianca. Amareggiato e deluso che tanto lavoro, e passione, fallissero così miseramente, senza regalargli la gioia di un raccolto appena decente.
Aveva acquistato quella terra circa tre anni prima, con una parte della liquidazione, in un posto tranquillo, soleggiato, alla periferia di Savona; in quella che era conosciuta come contrada di B. Pianeggiante, con un piccolo torrente che non tradiva nemmeno d’estate, aveva a un tiro di schioppo un paio di confinanti nelle sue medesime condizioni. Vale a dire pensionati, contadini di ritorno, e insoddisfatti di quella terra che non dava niente, o quasi. Con o senza concime, anche ricorrendo a fertilizzanti dell’ultimissima o ultima generazione, o di quella precedente ancora, si poteva star certi che non si cavava un ragno dal buco.
Doveva rientrare per il pranzo attorno all’una; ma all’una e trenta non si era ancora visto. Idem alle due. Eppure era un uomo ligio, e puntuale, forse un po’ troppo taciturno.
Questo pensava la moglie, la signora Carla, quando la voce al telefonino le comunicò, giuliva, che l’utente da lei richiesto, era al momento irraggiungibile. Che sciocchezza, borbottò: era sempre stato raggiungibile. Così chiamò il figlio, perché andasse a vedere se era successo qualcosa. E finirono con l’andare entrambi.

Dopo circa mezz’ora giunsero al podere, e la prima cosa che notarono fu che l’utilitaria (una Fiat Panda 4×4 di colore rosso fiammante, ultima serie), non c’era. Non era possibile nasconderla perché a parte il fabbricato, non c’era che una piana, i campi brulli e spogli che digradavano, pochi alberi di albicocche, amarene, un paio di ciliegi, e verso il rivo, canne rigogliose, quelle sì, e pure un po’ di rovi. Diedero un’occhiata al magazzino, al suo interno, dove tutto era in perfetto ordine, e constatarono che non c’era traccia alcuna del lucchetto. Poi tornarono all’aperto, ne percorsero il perimetro con estrema attenzione, come se fosse stato una gigantesca costruzione pronta a svelare chissà cosa. Non c’era niente di niente. A parte la pena che saliva di secondo in secondo.
Infine scorsero qualcosa che penzolava da un ramo, a una trentina di metri dalla porta del magazzino, dove si trovavano. Si avvicinarono, e riconobbero a un albero da frutto, uno dei pochi capaci di regalare qualche albicocca, il cane. Impiccato.
Impallidirono entrambi, e quasi svenne la donna a quella vista.
Quel tempo, e il dolore, la loro vita insomma, sarebbero appartenuti anche a giornali, televisioni e polizia.
Almeno per un po’.


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