La Corte Costituzionale ha deciso che il Governo Monti agì illegalmente nel 2011 quando bloccò per due anni la rivalutazione delle pensioni più alte. Adesso il Governo Renzi dovrà in qualche modo restituire quei soldi. Tutto bene quel che finisce bene, quindi? Nient’affatto. Perché se da una parte è vero che i pensionati non devono diventare il Bancomat dello Stato, dall’altra occorre ammettere che in Italia c’è un problema di spesa pensionistica fuori controllo.
La Corte Costituzionale, con una sentenza resa nota lo scorso 30 aprile, ha dichiarato “incostituzionale” una parte del decreto Salva Italia approvato nel dicembre 2011 dal Governo tecnico guidato da Mario Monti. All’apice della crisi finanziaria, quel Governo decise tra le altre cose di bloccare la rivalutazione annuale delle pensioni più alte in base all’andamento dei prezzi. Si chiama processo di “perequazione”: se i prezzi in un certo anno salgono mediamente dell’1%, normalmente gli assegni pensionistici vengono fatti aumentare dello stesso ammontare, cioè dell’1%; in questo modo, secondo il legislatore, si tutela il potere d’acquisto dei pensionati. Nel dicembre 2011 si decise di fare uno strappo a questa regola: per due anni, cioè nel 2012 e nel 2013, le pensioni che superavano tre volte la pensione minima (pari a 500 euro mensili), non sarebbero state rivalutate. In questo modo, il Governo di allora tentava di ridurre le spese dello Stato centrale nel breve termine – in attesa che l’innalzamento dell’età pensionabile e il passaggio al metodo di calcolo contributivo per tutti decisi dalla riforma Fornero avessero effetto – e in questo modo ci riuscì. Oggi però la Corte sostiene che il principio dell’adeguatezza di salario e pensioni di cui si parla nella Costituzione è stato eccessivamente sacrificato in nome dell’articolo 81 sul pareggio di bilancio contabile. Risultato: adesso i 5 milioni di pensionati che non si sono visti adeguare l’assegno pensionistico, perché avevano una pensione di ammontare superiore a tre volte quella minima, avranno diritto a un rimborso.
Tutti felici, dunque? Il Governo Renzi, in carica dallo scorso anno, sicuramente no. Pagare quelli che d’improvviso si configurano come arretrati avrebbe un costo stimato in circa 13 miliardi di euro. Altro che “tesoretto” di cui si era vociferato fino a qualche settimana fa per far credere all’opinione pubblica che qualche regalo fosse in arrivo. Se il Governo dovesse pagare tutti e 13 i miliardi subito, i conti tornerebbero in profondo rosso già quest’anno. L’esecutivo ha deciso che assicurerà il rimborso di questi soldi, ma con gradualità; vale a dire che gli adeguamenti all’inflazione del 2012 e del 2013 non saranno comunque garantiti per le pensioni più alte (d’altronde già negli anni 2000, con un governo di centrosinistra in carica, la Corte Costituzionale ammise un prelievo una tantum a danno delle pensioni superiore a 8 volte quella minima). In particolare l’esecutivo, per quest’anno, sborserà 2 miliardi e 180 milioni che verranno ricevuti da 3,7 milioni di pensionati, tutti il 1° agosto. La platea definita dall’esecutivo esclude circa 650mila pensionati” di quelli che teoricamente potevano accedere al rimborso, in particolare quelli sopra i 3mila e 200 euro lordi di pensione al mese.
Comunque si svolgerà questa vicenda nei prossimi anni, e comunque la si pensi sulla soluzione scelta dal Tesoro, i segnali di allarme sono almeno due. In primo luogo, come ci ha ricordato questa sentenza della Consulta, nessun cittadino italiano è immune alla tentazione dei vari Governi che, piuttosto che decidersi a tagliare radicalmente la spesa pubblica, possono sempre preferire di mettere le mani nelle nostre tasche. Anche per decreto. E addirittura ai danni dei pensionati, non soltanto di quelli più ricchi. A meno di non voler ritenere “ricco” un pensionato che riceva 1.500 euro lordi al mese dall’Inps!
Detto ciò, si sbaglierebbe a ritenere che i giudici della Corte Costituzionale siano intervenuti a spada tratta in difesa di tutti i contribuenti. Da una parte perché davvero si fatica a capire come gli stessi giudici possano far finta di non ricordare la situazione di sincope finanziaria vissuta allora dall’Italia, situazione generata in parte dalle storture della moneta unica ma in larga parte anche dal fatto che il nostro Paese si fece trovare già parecchio indebitato e appesantito da una imponente spesa pubblica. D’altra parte, ribadendo che tutte le pensioni in essere al 2011 debbano essere comunque rivalutate, la Corte sorvola sul fatto che quei pensionati (il cui assegno era calcolato quasi totalmente col sistema retributivo) sono mantenuti dai contributi dei lavoratori di oggi. In Italia vige infatti un sistema cosiddetto “a ripartizione”, con i lavoratori di oggi che pagano i contributi non per se stessi quando diventeranno inattivi, ma per gli inattivi di oggi. (Diversamente, nel sistema cosiddetto “a capitalizzazione”, i contributi dei lavoratori di oggi si accumulano per costituire un capitale che viene investito e può generare il reddito necessario per il momento in cui i giovani saranno invecchiati). Da una parte l’invecchiamento demografico (meno lavoratori giovani, più pensionati da sostenere), dall’altra la crisi prolungata e il declino della produttività (meno reddito generato oggi dai giovani), rendono questo sistema di finanziamento delle pensioni sempre più insostenibile. La Corte però, con la sua decisione, di questo sembra non preoccuparsi affatto. Ai lavoratori di oggi, anzi, fa quasi capire che il nostro sistema pensionistico non si tocca: eppure per le pensioni pubbliche lo Stato italiano ha speso quasi 250 miliardi di euro nel 2013; si tratta della più importante voce del nostro welfare e soprattutto del 15,5% del prodotto interno lordo. Mentre negli altri paesi dell’Ocse, cioè i 34 più sviluppati del pianeta, la spesa media per le pensioni è ancora inferiore al 10% del Pil. L’Italia, sull’entità delle uscite pubbliche, sa sempre come primeggiare. E io (lavoratore, giovane o meno giovane che sia) pago!