Il testo seguente è tratto dall’intervento pronunciato il 17 novembre u.s., presso il Centro russo di scienza e cultura di Roma, in occasione di un convegno su Russia e Italia nella Prima guerra mondiale.
Nel 1472 l’allora Gran Principe di Mosca (futuro sovrano, gosudar’, di tutte le russie) Ivan III sposò Sofia, già Zoe, Paleologa, nipote di Costantino XI, ultimo imperatore romano d’Oriente caduto, diciannove anni prima, sulle mura di Costantinopoli nella vana difesa contro l’aggressore ottomano.
Quest’evento incarna il passaggio della Russia da una mentalità regionale a una imperiale, una sorta di translatio imperii da Costantinopoli a Mosca. Non a caso, in quel periodo si diffusero una leggenda e una dottrina emblematiche. La dottrina è quella, ben nota, della “Terza Roma”: dopo la prima, originale e italiana, caduta nel 476 e la seconda, Costantinopoli (fondata come Nuova Roma), crollata nel 1453, una terza Roma era emersa – Mosca – ovviamente destinata a non crollare mai.
La leggenda è invece quella della discendenza della dinastia principesca moscovita da Ottaviano Augusto. Secondo questa storia (totalmente avulsa dalla realtà storica) l’anziano Augusto avrebbe diviso il proprio impero tra gli eredi, affidando le rive della Vistola a un fratello di nome Prus. Dopo quattordici generazioni, da costui sarebbe disceso Rjurik, semi-leggendario capostipite eponimo della dinastia rjurikide cui si dovette la nascita della Rus’ di Kiev e da cui discendevano gli allora prìncipi di Mosca.
In corrispondenza del matrimonio con Sofia, Ivan III adottò il cerimoniale imperiale bizantino, il simbolo dell’aquila bicipite e pure il titolo di Zar, versione slavo-orientale di Caesar, il titolo con cui i coevi identificavano gli imperatori romani (e la cui pronuncia originale doveva essere “kaesar”, da cui anche il tedesco “Kaiser“). Pochi anni dopo, Ivan III inviò a Venezia un proprio agente col compito di reclutare architetti italiani, inizio di un flusso che sarebbe proseguito per secoli. Oggi alcune delle meraviglie osservabili in Russia sono frutto del genio italiano: porzioni del Cremlino, il Palazzo d’Inverno, l’Hermitage e così via.
Malgrado l’apprezzamento russo per l’arte italiana, e sebbene Mosca cercasse nella storia e nella tradizione romane la sua legittimazione imperiale, i due paesi rimasero ancora per secoli politicamente lontani l’uno dall’altro. Il motivo si può ravvisare nella distanza geografica, che nessuno dei due attori aveva allora la potenza per travalicare. La Russia moscovita fu impegnata, ancora nel Settecento, nella ricostituzione della vecchia Rus’ kievana, concedendosi le “divagazioni” più importanti nell’espansione in Siberia, dunque lontano dall’Europa. In Italia, invece, malgrado il passaggio dalla dimensione comunale a quella degli stati regionali, il processo di accorpamento politico era stato abortito dalle invasioni stranieri a partire dalla fine del XV secolo.
Le cose cambiano a cavallo tra Settecento e Ottocento. Le guerre della Rivoluzione francese e napoleoniche vedono la Russia attore protagonista delle varie coalizioni, impegnata a mandare le sue armate sui campi di battaglia europei. Anche l’Italia, una volta inserita nel sistema imperiale napoleonico, fa la propria parte. La campagna di Russia vede impegnati 50.000 italiani, per metà settentrionali e per metà meridionali, inseriti nel IV Corpo d’armata comandato dal Vicerè d’Italia (e figlio adottivo di Napoleone) Eugene de Beauharnais.
Passata la stagione rivoluzionaria, l’Italia è comunque contagiata alle passioni patriottiche e nazionaliste che infiammeranno il Risorgimento. La Russia, invece, si fa garante della “Santa alleanza” per la conservazione e il legittimismo dinastico. Nel 1848 le armate zariste intervengono in Ungheria per sedare l’insurrezione guidata da Kossuth, favorendo indirettamente la restaurazione asburgica in Italia.
Di lì a poco, tuttavia, con un plateale sfoggio di irriconoscenza gli Absburgo si schierano contro i Romanov nella guerra russo-ottomana, patrocinando l’intervento militare franco-britannico in Crimea. Il Piemonte, interprete statuale del Risorgimento, si trovò di fronte a un dilemma: Parigi e Londra richiedevano un aiuto che, tuttavia, sarebbe andato contro il nemico (Russia) del nostro nemico (Austria). La celebre e controversa scelta del Conte di Cavour fu quella d’impegnare un contingente sabaudo nella guerra di Crimea contro Mosca (e indirettamente a favore di Vienna) pur di elevare la questione italiana da problema d’ordine pubblico a tema diplomatico.
Nel decennio successivo il favore di Parigi e Londra è fondamentale per permettere ai piemontesi di riunificare l’Italia. Lo Zar, difensore dello status quo, non accoglie con entusiasmo tale sviluppo e per molti anni i rapporti col nuovo Stato italiano sono freddi. Anzi, il sovrano moscovita si unisce con quello tedesco e con l’austriaco nel Dreikaiserbund, il “Patto dei tre imperatori” evidentemente teso a gestire consensualmente l’Europa. Con la Francia prostrata dalla sconfitta di Sedan e con la Gran Bretagna persa nel suo “splendido isolamento”, l’Italia si affretta a rinsaldare il rapporto con Berlino, già testato nella Terza guerra d’indipendenza. Il risultato è la Triplice alleanza con Germania e Austria-Ungheria, la quale prende piede negli stessi anni in cui il Dreikaiserbund si consuma fino ad esaurirsi totalmente: per molti versi, l’Italia entra nel sistema d’alleanza germanico in sostituzione della Russia.
Occorre qui, per comprendere i fatti successivi, sviscerare una costante della politica estera italiana. L’Italia, pur riconosciuta dopo il 1861 e fino al 1943 come una “grande potenza”, non ha mai avuto una potenza pari a quella degli stati più forti. Ciò ha motivato la sua continua ricerca di un alleato di riferimento, ma nel contempo il disagio per il rapporto asimmetrico che con quest’ultimo viene necessariamente a crearsi per la disparità di potenza. Da qui la pratica che Von Bülow definì dei “giri di valzer”: parallelamente al forte alleato, l’Italia cerca solitamente degli “amici”, magari persino avversari del proprio alleato, che possano controbilanciarne l’influenza. La stessa unità nazionale è stata realizzata con questo escamotage: l’alleato francese ha reso possibile la conquista del nord, l’amico britannico quella del sud. La Triplice alleanza è sottoscritta con un allegato, fortemente voluto da Roma, che escluda ogni sua possibile interpretazione in senso anti-britannico. E con Londra e poi anche Parigi la diplomazia italiana comincia, dopo la stagione crispina, a intrattenere rapporti sempre più cordiali, al punto da schierarsi contro l’alleato tedesco in occasione della crisi marocchina.
Nel 1907 l’accordo anglo-russo pone fine a decenni di tensione in Asia, dove le rispettive linee d’espansione avevano cozzato. La preoccupazione per l’ascesa tedesca in Europa consiglia Londra e Mosca d’appianare ogni divergenza. Si tratta di un segnale anche per la diplomazia italiana, che decide di potersi finalmente rivolgere in senso positivo alla Russia. L’occasione giunge l’anno seguente con la crisi bosniaca (annessione formale della Bosnia all’Austria-Ungheria, che Vienna già amministra ma che stava formalmente sotto la sovranità ottomana). Il ministro degli Esteri Tittoni propone a Mosca e Vienna di regolare consensualmente ogni modifica dello status quo nei Balcani, ma il deciso appoggio di Berlino all’alleato austro-ungarico rende Vienna troppo spavalda e Mosca troppo reticente perché il piano italiano si concretizzi.
L’anno successivo, tuttavia, è la Russia a farsi avanti: nel 1909 lo Zar fa visita al Re d’Italia a Rapallo. Il suo ministro degli Esteri Isvolskij si presenta con una bozza di accordo: Mosca dà il via libera all’Italia per conquistare la Libia, Roma riconosce il Bosforo nella sfera di Mosca, ma soprattutto i due paesi s’impegnano a favorire il mantenimento dello status quo nei Balcani e, qualora ciò non sia possibile, a far nascere stati indipendenti anziché far espandere imperi esterni. Si tratta di un accordo evidentemente anti-absburgico e perciò i diplomatici italiani tentennano: Vienna è nostra alleata. Isvolskij vince ogni reticenza mostrando loro un accordo segreto austro-russo di qualche anno prima, dal tenore anti-italiano, che Vienna aveva siglato a nostra insaputa.
Malgrado questo primo importante accordo tra Italia e Russia, se i due paesi si trovano alleati nella Prima guerra mondiale è principalmente per una contingenza: ossia che entrambi si allineano a Londra e Parigi. Nel caso dell’Italia, verificato che il conflitto non sarebbe finito rapidamente e non potendo contare sul proprio peso come determinante del risultato, la scelta va verso coloro che, in qualità di nemici, potrebbero procurare più danni: ossia la Francia (il confine alpino occidentale è meno difendibile dell’orientale) e la Gran Bretagna (che domina nel Mediterraneo). La Russia servirebbe comunque, alla fine della guerra, per controbilanciare Londra e Parigi, ma purtroppo per l’Italia l’alleato d’oriente si eliminerà da solo dalla competizione a Brest-Litovs’k. I risultati si vedono a Versailles, dove il nostro paese è bistrattato dai tre più forti alleati occidentali.
Durante la Guerra fredda, la corrente cosiddetta dei “neoatlantisti” (Gronchi, Fanfani, Mattei ecc.) cerca però proprio un buon rapporto con la Russia, nella sua nuova incarnazione sovietica, quale contrappeso allo strapotere dell’alleato statunitense. Il crollo dell’Urss, nostro avversario, rappresenta paradossalmente l’inizio di un momento critico per l’Italia, la cui influenza politica nel mondo declina improvvisamente.
Oggi la situazione non è, per l’Italia, troppo diversa dal passato. Essa è inserita in due principali sistemi d’alleanza: l’Unione europea e la Nato. Nell’Ue l’Italia è una seconda linea dietro a Germania, Gran Bretagna e Francia. Nella Nato è gerarchicamente ancora più lontana dal capofila Usa. In tale contesto la Russia, con cui l’Italia ha consolidati rapporti economico-commerciali e cordiali relazioni politiche, può fungere da riferimento esterno che faccia da contrappeso a quelli interni, aumentando la nostra voce all’interno dell’Ue e della Nato. Tale opportunità rischia però di svanire se l’attuale china anti-russa assunta a Bruxelles dovesse proseguire e aggravarsi, senza un deciso intervento italiano per frenarla.