Magazine Psicologia
In linea con Frances, la nostra esperienza clinica e formativa, su tanti casi e anni di corsi su e giù per l'Italia, interagendo con centinaia e centinaia di persone e terapeuti della più differente foggia professionale e provenienza culturale, ci suggerisce, con una certa inequivocabilità, quanto lavoro ci sia ancora da fare affinché ogni riduttivo utilizzo della diagnosi come strumento privativo, divenga invece una risorsa attraverso cui leggere la realtà (o, meglio: una realtà) e, conseguentemente, riflettere su di essa e non, come troppo spesso accade, una gabbia che imprigiona la realtà in una o più definizioni fossilizzanti.
Come osservavano nel post "Dai dis-turbi ai bi-sogni" ogni valutazione diagnostica prevede, sempre, una qualche forma di svalutazione, poiché la diagnosi che va a nominare il malessere ha sempre un aspetto privativo che rischia il più delle volte di imprigionare il soggetto diminuendone le opportunità anziché ampliarle.
Parafrasando la scrittrice americana Grace Paley, potremmo dire che la diagnosi toglie ogni speranza, poiché chiunque, sano o malato, merita il destino della vita. Accade, invece, più spesso di quanto non si dica, che la diagnosi, se non accuratamente governata, anziché divenire uno strumento propulsivo, riduce le speranze, vincolandole a un destino limitato.
Il meccanismo è più o meno questo.
Un soggetto mostra qualche tipo di malessere, sofferenza o una qualche marcata difficoltà ad aderire alla realtà e alla sue richieste. Tale disagio viene registrato dal soggetto stesso o da qualche attore esterno (in famiglia, a scuola, sul lavoro, etc.) e il soggetto viene inviato a qualche professionista più o meno affine alla tipologia di difficoltà riscontrata.
Questo invio va già letto come una prima valutazione: qualcuno (compreso quel qualcuno che ognuno è per se stesso) che, anche senza affermarlo direttamente, dice: "Guarda che così non vai bene. Devi farti aiutare.". Si tratta, insomma, di una richiesta che, pur fatta nella più totale buona fede, contiene, nella configurazione stessa del suo enunciato, una prima valutazione che è, di fatto, una svalutazione: "non vai bene".
Si ricordi, come abbiamo osservato nel post "Professioni deliranti", che questo "non vai bene" non è dettato da un visione oggettiva e universalmente valida, ma culturalmente determinato e, quindi, soggetto a variazioni: storiche, territoriali, sociali, persino familiari.
Successivamente, nell'incontro con il terapeuta, il soggetto è chiamato a rimarcare questa prima valutazione: egli, infatti, (da solo o insieme a eventuali accompagnatori) deve dire del suo male e, ovviamente, non potrà farlo che attraverso una valutazione svalutativa: ovvero palesando ciò che in lui non va e che produce il suo malessere.
Di queste due "naturali" svalutazioni da cui ha abbrivo il rapporto terapeutico, il professionista dell'aiuto alla persona dovrebbe tenere grandissimo conto affinché il suo supporto abbia un reale impatto curativo. Cosa che, purtroppo, raramente accade. Anzi. Quel che succede è, invece e paradossalmente, un rincaro della dose svalutativa.
Il professionista dell'aiuto alla persona, infatti, una volta ricevuta la valutazione svalutante del soggetto, deve necessariamente compiere un'operazione di traduzione per passare dal racconto soggettivo di colui che accusa il malessere a una visone, potremmo dire «tecnica» di quel malessere soggettivamente narrato. Ma anche questa valutazione, ça va sans dire, si trasforma il più delle volte in un'ulteriore svalutazione, quella che comunemente chiamiamo -appunto- «diagnosi».
Si tratta, in questo caso, di una svalutazione, se è possibile, anche peggiore delle precedenti: primo perché, a questo punto, è uno specialista a conclamarla; secondo, perché, utilizza un linguaggio tecnico, dotato di una sua specifica altisonanza; terzo, perché tale linguaggio, sfrondato da ogni carattere soggettivo, si palesa in una sorta di definitiva oggettività che pare non lasciare adito a dubbi; quarto, perché, in ultima istanza, nomina un malessere che prima non aveva nome e, così facendo, non solo fa esistere qualcosa che prima era solo una nebulosa descrizione, ma, peggio, rischia di fare coincidere il soggetto portatore del malessere con quella definizione.
Visti i pericoli, vediamo ora le possibili precauzioni e rimedi.
Diremo, anzitutto, che, se il percorso -più o meno naturale- che porta alla diagnosi, rischia di avere un carattere pericolosamente svalutante, la prima azione che il terapeuta dovrebbe compiere è, invece, quella di estraniarsi da questa tendenza, per compiere una sorta di retromarcia in direzione rivalutativa.
Con il termine "rivalutazione" intendiamo, per essere chiari, non il sottoporre il soggetto a una nuova serie di test e esami per "valutarlo nuovamente", ma proprio una consapevole operazione mediante cui il terapeuta attribuisce nuovo valore positivo e costruttivo alla naturale descrizione svalutante del soggetto, annullandone, smussandone, l'effetto negativo o, almeno, non partecipando al rincaro della dose svalutativa.
Come fare.
L'opportunità di questo mutamento in positivo è già insita nel racconto del soggetto portatore del malessere, un racconto che, per sua natura, si presenta in una forma salvifica, seppur troppo spesso ignorata: la forma del romanzo, della narrazione letteraria o, se vogliamo, la forma -appunto- del soggetto.
Questo incipit narrativo, soggettivamente centrato, accade sempre e comunque. Anche laddove il soggetto fosse dotato di strumenti e saperi specialistici, in grado di nominare, allo stesso modo del terapeuta, il suo male, non potrà comunque fare a meno di utilizzare, anche e soprattutto, la forma narrata, pena l'impossibilità, per chi lo ascolta, di capire veramente quel male e, quindi, di aiutarlo efficacemente.
Ed è proprio questa forma narrata che può salvare il terapeuta dall'effetto svalutante, aiutandolo a elaborare la sua rivalutazione.
Il terapeuta deve, cioè, impossessarsi della forma del soggetto, spogliandosi il più possibile da qualsivoglia tentazione di oggettività. Deve trovare una sua narrazione il più possibile estranea a qualsivoglia definitorio tecnicismo, deve evadere da ogni formulazione in cui traspaia una qualche altisonante verità, per rimettersi, infine, all'unica verità possibile: la verità di quella relazione che li e ora, incrociando i reciproci dati e i reciproci saperi, produce una verità terza, una verità meticcia nata dall'incontro di quegli sguardi che, in differenti modi, si posano sul medesimo fenomeno.
Si tratta, allora, paradossalmente, di uscire da qualsivoglia pretesa diagnostica, rifiutandosi di trattare le persone come oggetti di indagine, per ricondurli alla loro natura di soggetti che differiscono dagli oggetti per la loro irriducibile univocità, per la loro capacità di saper riflettere su di sé, per la loro abilità nel collaborare alla rilevazione dei "problemi" che li attanagliano e nel produrre conoscenza.
Si tratta, dunque, di un approccio fortemente situazionista, i cui interventi e le cui strategie non si fondano sulla ripetizione delle relazioni osservate in precedenza, su test che statisticamente accomunano l'uno ai centomila e, quindi, a nessuno, ma sul contesto e sui soggetti che, per loro natura, differiscono ogni volta.
Scopo dell’intervento rivalutativo è, dunque, comprendere un disagio che gli stessi soggetti partecipanti alla cura contribuiscono a definire, essendo loro i soli detentori delle principali risorse che porteranno o meno a qualche soluzione.
Tale approccio coinvolge l’osservato nel processo di conoscenza, moltiplicando così i punti di vista riconosciuti rilevanti e consegnando, contemporaneamente, la duplice visione dell’essere co-fruitore e co-autore della propria rivalutazione.
Massimo Silvano Galli
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