Chissà nel Gotha di quella borghesia lombarda, tanto decantata per sobria operosità, contegnosa avvedutezza, prudente parsimonia, a quanti consigli di amministrazione con relativi gettoni e dividendi si ha diritto, potendo vantare 6 tra nomi e cognomi. La Signora Ilaria Carla Anna Borletti Dell’Acqua in Buitoni, sguardo fiero, temperamento deciso e una radicata propensione al volontariato., secondo l’untuoso ritratto che ne fece all’atto della sua nomina l’Espresso, ne può annoverare uno speciale, quello del governo degli affaristi in erba, in mezzo ai quali si muove con la sbrigativa e rude spigliatezza di chi è abituato a trattare con servitori, dipendenti e inservienti.
E ha ragione, quel posto l’ha pagato caro, comprandosi (ma lei definì il finanziamento di 710 mila euro al partito un disinteressato “regalo”) una candidatura sicura presso la Monti SrL, quando la lista si chiamava Scelta Civica e pretendeva di rappresentare personalità e interessi di accademici, imprenditori, banchieri e bancari, di un ceto “illuminato” sì, ma dalla luce del privilegio, delle disuguaglianze che generano superiorità artificiali, contiguità al golpismo finanziario, impervie altezze, attribuibili magari a pettinature e pienezze di sé molto gonfiate. E infatti lo sberleffo che le bruciò di più fu quello di Crozza che paragonò la sua coiffure cotonata a quella di Moira Orfei, mentre fece sprezzanti spallucce alle critiche di Settis e di altri che le rimproveravano la scorciatoia elettorale e l’intenzione subito rivendicato di “aprire ai privati”, secondo quella insulsa ma inesausta ideologia che assimila arte e cultura al petrolio, a giacimenti da sfruttare fino all’estinzione. In realtà, proprio come Moira, la signora, ex presidente del Fai dove subentrò ad altra dama altrettanto titolata, ma appena un po’ meno vanitosa, ha usato lo scudiscio della domatrice per farsi largo in un ministero che subito la deluse per farraginose burocrazie, caste inviolabili di sfaccendati, talebani della tutela, un “mondo, lo definì, congelato da procedure rigide che non permettono interventi né rapidi né incisivi”, afflitto da “strumenti normativi farneticanti. Un esempio: decidono di aprire una finestra murata? Arriva un ricorso. L’Italia è la Repubblica fondata sui ricorsi … è un delirio normativo, vera gabbia del ministero.”.
Bisognava snellire, svecchiare, semplificare, insomma, per “valorizzare”. Che nel gergo suo e del governo significa consegnare a privati, a un mecenatismo peloso, a sponsor taccagni interessati solo alle ricadute pubblicitarie dei loro modesti investimenti, la cui rapace occupazione dei nostri beni culturali viene legittimata da defiscalizzazioni, comodati gratuiti e fitti trentennali, alienazioni travestite da restauri, di quelli che a Roma si chiamano “romanella”, una passata di intonaco e via a fronte dello sfruttamento perenne di brand e marchi, magari sotto la forma di lenzuoloni stesi a coprire la vergogna dell’abbandono, della trasandatezza, della svendita.
La tenace determinazione della signora a farsi interprete dell’ideologia del Governo è stata premiata con una delega fondamentale, quella del paesaggio, incarico del quale, con malcelato orgoglio, si compiace nel suo sito: “Oggi ho ricevuto ufficialmente la delega per il paesaggio. Un ruolo impegnativo che cercherò di svolgere nel modo migliore possibile nella convinzione che la tutela del nostro paesaggio sia non solo un dovere costituzionale ma un compito primario di questo ministero”. Nel rallegrarsi per il doveroso riconoscimento, la signora spende qualche parola sulle soprintendenze, “accusate di essere uno dei fattori di rallentamento della ripresa”, ma che, bontà sua, “operano in situazione di enorme difficoltà per carenza sia di mezzi che di risorse e quindi faticano a rispondere alle richieste dei cittadini”. Stavolta però non si tratta di aprire una finestra, bensì di risolvere l’eterno conflitto, dice, tra “materia urbanistica e tutela”.
Non ha di che preoccuparsi, la sua nomina cade a fagiolo: a chiudere la guerra di carte, permessi, autorizzazioni, silenzi assensi e loquaci consensi, per non dire di bustarelle, fino ad ora illegali, ci hanno già pensato zelanti colleghi di governo, il suo Ministro, ma soprattutto Lupi con i suoi fiori del male all’occhiello, Sblocca Italia e riforma urbanistica.
Il primo, con quella sua “riforma” del Mibact, un provvedimento di tagli a riconfermare la necessità improrogabile di distinguere rigidamente gestione e tutela, smantellando il sistema delle soprintendenze e quindi della salvaguardia, e compiacendo così l’avversione del premier, più volte espressa, per organismi che in questi anni hanno rappresentato l’unica flebile voce che si sia opposta, al fianco di sparute associazioni di cittadini, alla speculazione, al saccheggio, a scriteriate grandi opere e all’abbandono e all’incuria del territorio, riducendo i luoghi, il territorio, i musei, i monumenti facile preda della commercializzazione e della mercificazione, per ubbidire alle leggi del marketing. Il secondo che in due disegni di legge ha tratteggiato la grande operazione di svendita del territorio e delle città, dell’apertura entusiastica a cemento e legalizzazione delle irregolarità e dei soprusi, del coronamento dell’ideologia dell’alienazione e dell’espropriazione, come abbiamo cercato di riassumere qui: http://nblo.gs/109kwB.
Nel governo delle goffe imitazioni della Thatcher, sotto quella acconciatura appena un po’ più imponente si agitano propositi e intenti altrettanto infami, dettati da una inalterabile convinzione, la necessità continuamente proclamata di sciogliere quel «legame indissolubile» tra lo Stato e il patrimonio storico e artistico, grazie al contributo egemonico dei privati, ai quali dovrebbe essere consegnata la gestione, con o senza fini di lucro, mentre al settore pubblico rimarrebbe solo l’attività di tutela, sempre più ridotta e impoverita da tagli e dalla corruzione delle leggi, in favore della speculazione. La signora dovrebbe ammetterlo, a lei non interessa mettere fuori gioco lo Stato, che serve eccome ed è servito a alimentare assistenzialismo, a riempire le falle di quella sua borghesia illuminata, a foraggiare i giochi d’azzardo degli azionariati. L’intento vero è metter fuori i cittadini, i loro diritti sanciti dalla Costituzione, anche quello a godere di bellezza e di quei beni sui quali nei secoli hanno “investito” con tasse e imposte. Tanto per le Serbelloni Mazzanti Vien Dalmare è importante che restino inalterato e “loro” il panorama che si gode dai loro casali, la vista oltre le finestre dei loro sontuosi palazzi in città, convinte di aver accecati i Fantozzi con il bisogno e l’umiliazione.