Claudia Santonocito 8 maggio 2013
«Dicono che la felicità non si possa raccontare». Ma vorrei raccontare una storia. Anzi la vorrei ri-raccontare. È la storia che sta dietro il libro Ernest e Celestine di Daniel Pennac (tradotto dal francese da Yasmina Melaouah per la collana Kids di Feltrinelli) perché conoscerla è sufficiente per farvi innamorare già a priori. Daniel Pennac lo conosciamo tutti, ma per chi non lo sapesse è un romanziere francese molto apprezzato in Italia. Chiaramente è un uomo come tanti e anche lui ha degli amici. La magia di questo libro sta proprio nell’amicizia ed è proprio da questa che ha origine e, se vogliamo rendere tutto ancora più zuccheroso, l’amicizia dal quale nasce è unicamente epistolare. Per più di un decennio Daniel ha frequentato Gabrielle Vincent, pseudonimo di Monique Martin, illustratrice belga scomparsa nel 2000, ma le loro chiacchierate si sono svolte semplicemente su carta. Non si erano mai visti, né parlati al telefono. Un’amicizia nata dopo che Pennac conobbe per caso gli albi illustrati di Gabrielle in una libreria. Gabrielle infatti negli anni ’80 aveva ideato Ernest e Celestine, un orso e una topolina, che vivevano storie mute tra i suoi splendidi disegni acquerellati. Poi arrivò Daniel e ci mise le parole. Ernest è un orso musicista che vive nel mondo di sopra, Celestine è una topolina con la passione della pittura ma che lavora come “raccoglitrice di denti caduti” per il mondo di sotto. Inutile dire che i mondi sono tra di loro inconciliabili e incompatibili, ma per una serie di sfortunati eventi Ernest e Celestine si imbattono l’uno nell’altra. Entrambi infatti sono ricercati dalle rispettive polizie e decidono di nascondersi insieme per tutto l’inverno. Ne nascerà un’amicizia di una tenerezza infinita con qualche colpo di scena finale come in tutte le favole che si rispettano. Perché è evidente che di una favola per bambini si tratta, adattissima e piacevolissima anche per gli adulti.
Il messaggio è chiaro e limpido fin dall’inizio, l’incongruenza di due mondi può risolversi nella semplicità di un’amicizia che con la sua forza riesce a superare tutte le diversità anche le più insormontabili donando ricchezza e felicità reciproca: Pennac con simpatia e la consueta maestria intreccia un racconto inframmezzato da dialoghi e battibecchi assolutamente comici da “dietro le quinte” tra l’autore e i protagonisti a cui si aggiunge anche un lettore anonimo pronto a mettere il naso nella trama facendo congetture e ipotesi. Certo, se volessimo smettere di lasciarci trasportare dalla bontà e dalla purezza della storia, potremmo cercare di rintracciare i temi cari a Pennac, già letti in altri suoi scritti, soprattutto nella saga dei Malaussène: Ernest indosserebbe i panni di Benjamin Malaussène, capro espiatorio per eccellenza, e tutto il contorno perderebbe di irrealtà per addensarsi nella tipica critica pennacchiana ai meccanismi del potere riscontrabile nella divisione netta tra i due mondi, nell’indottrinamento di crudeli assurdità nelle menti dei più piccoli da parte degli adulti ignoranti (da leggere come “storie raccapriccianti per far impaurire i bambini e indurli a comportarsi bene”), fino ad arrivare agli assurdi tribunali giudicanti che non rispettano le libertà individuali. Ma forse è meglio godersi semplicemente la storia abbandonando la realtà fuori dalla stanza e lasciarsi pervadere da quella sensazione deliziosamente deliziosa di felicità. Per usare le parole di Pennac, «descrivere l’immensa felicità di Ernest e Celestine è facile, basta una frase: “Ernest e Celestine erano immensamente felici”. Ecco, fine».