Le braccia alzate, il fragore del pubblico e un nome scritto su un albo d’oro sono le poche e ultime parole di una corsa. A volte dicono tutto, altre no.
Daniel Oss, ragazzone trentino innamorato del pavè e Peter Sagan, biker slovacco che pedala su ogni terreno come sulle nuvole, sono ex compagni di squadra. Una delle più belle soddisfazioni, forse, che si sono presi assieme alla loro Liquigas è stato finire il Tour l’anno scorso con Peter in maglia verde. Ma oggi, al GP Harelbeke ognuno lavorava per sé: Bmc e Cannondale, fianco a fianco, con le stesse probabilità di arrivare. Sì perché la strada non è fatta di pronostici: è fatta di asfalto, di sassi spigolosi e difficilmente è clemente con i favoriti. Quello di giornata era Tom Boonen che, sulla schiena, aveva il numero uno. E quando il belga parte a sessanta chilometri dal traguardo, Daniel Oss sta alla sua ruota. I giochi stanno cominciando, non vuole esserne escluso e, tra gli otto che si prendono terreno, c’è anche Fabian Cancellara. Peter Sagan rimane indietro e, mentre il gruppo forza per riprendere i fuggitivi, lo slovacco buca una ruota. Non sono momenti buoni per fermarsi, anche solo per pochi secondi, ma il giovane non si scompone. Risale subito in sella, con il meccanico che lo spinge quasi furiosamente per qualche metro. Via, ancora in corsa, a cominciare una risalita aiutato dai suoi ragazzi, quelli in verde della Cannondale. Tirano a denti stretti, come matti per riprendere Boonen e i suoi compagni di fuga. E Daniel è ancora lì, davanti. Ne mancano ancora di chilometri al traguardo, la corsa è tutta da decidere, i muri da affrontare fanno paura. Ma Daniel sa che è importante stare in testa, con i migliori. Perché quando si sparpaglieranno le carte, sarà più pronto a giocare la sua. Intanto Sagan rientra sui fuggitivi. Sono lì, adesso, i due ex compagni, nella stessa barca che tenta di spiegare le vele, anche se il vento è sferzante. Tengono duro sul Kapelberg, tra due ali di gente che applaude, che urla, che scatta foto come se quei ragazzi fossero attori. Ma quello dove traballano le ruote non è un tappeto rosso: c’è il pavè che ha la scorza di pietra, inclemente. E c’è il ritmo da non perdere, non bisogna rallentare, non bisogna perdere posizioni altrimenti il gruppo ti risucchia ed è finita. I muri sono, ogni volta, una prova di coraggio e come in un copione già scritto, sul Vecchio Kwaremont, re Fabian parte all’attacco. Peter prova a stargli a ruota ma la pedalata dello svizzero è inesorabile, tremenda. Per lui e Daniel che ora sono in un gruppetto di quattro eletti, la schiena di Cancellara che si allontana è come un sogno che svanisce lentamente, come i secondi di vantaggio che salgono senza sosta.
Ma nessuno dei due ha intenzione di arrendersi: Peter è abituato al ciclocross, dove si pedala nel fango e Daniel ha la tempra del corridore del Nord, si è fatto le ossa risalendo sempre in sella. E allora comincia una lotta per raggiungere l’impossibile: riacciuffare quello che tutti chiamano la “Locomotiva di Berna”. I secondi che li separano diventano altalenanti e i cambi da dare non sono così facili: Daniel è in fuga da molti chilometri e Peter ha speso tante energie per risalire il gruppo. Stringono i denti, sbuffano ma, in realtà, non abbandonano mai del tutto la speranza di potercela fare. Quei chilometri assomigliano ad una lunga agonia e il distacco si stabilizza a poco più di un minuto. Niente da fare: Fabian Cancellara arriva da solo al traguardo.
Dietro, i due ex compagni vedono scivolare via tutto e, forse, la fatica prende un’altra dimensione che il pubblico non può più capire perché si mischia alla rassegnazione e ha un sapore intimo, personale. Quando mancano ottocento metri al traguardo Daniel raccoglie le sue ultime energie. Le gambe, questa volta, premiano il suo coraggio e, in un ultimo scatenato assolo, vola verso il secondo posto. Peter, per pochi centimetri, non glielo concede ma, sul podio, ci finiscono lo stesso: secondo e terzo, su gradini che, alla fine, sono alla stessa altezza. Sorrisi un po’ amari che ricordano quelli di due vecchi amici, impegnati nello stesso viaggio, nella stessa impresa.
Sì, le vittorie non sono molto indulgenti con quelli che arrivano dopo. Dal secondo in poi è sempre un discorso a parte: tante voci e tante fatiche che si snodano e si deformano fino alla coda del gruppo, fino a quello che, sul traguardo, ci arriverà per ultimo. Ma quello che le vittorie non dicono è sui volti di ragazzi come Daniel e Peter, che si sono bevuti la loro gara fino alla fine, senza mollare un secondo. Quello che le vittorie non dicono è nelle pieghe della loro fatica, delle loro gambe di legno che hanno spronato a continuare. E’ tutto lì, in bilico tra sessanta e quaranta secondi, tra il tempo da recuperare e i muscoli che fanno male. Tra la sensazione che lo sforzo sia inutile e la speranza di potercela fare. Quello che le vittorie non dicono è un frammento prezioso del ciclismo più vero. E, come tutte le cose non dette, rimangono dentro, a fare compagnia ai sogni più intimi, a cullare nuovi presagi di vittoria.