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Ci sono registi prevedibili, che in qualche modo fanno sempre lo stesso film, come gli “amatissimi” Pedro Almodóvar o Nicolas Winding Refn, che più che dirigere clonano (da se stessi, ma neanche sempre) e poi aggiungono fronzoli e arabeschi qua e là per rendere più pepata la minestra agli occhi del pubblico; e ci sono altri registi, invece, come Asghar Farhadi, che pur lavorando sulla medesima struttura, quella del melodramma o dello psicodramma, per così dire, riescono a confezionare un modello formale assolutamente moderno e innovativo.
A guardare About Elly, Orso d'argento alla kermesse berlinese edizione 2009, viene innanzitutto voglia di scomodare un altro grande “sperimentatore” della settima arte, Claude Chabrol, che in alcuni capolavori indiscutibili come Il tagliagole (1970) o Stéphane, una moglie infedele (1969), partiva dal classicismo più rigoroso (una storia d'amore campagnolo e un tradimento coniugale, rispettivamente) per poi sovvertire, giusto a metà proiezione, le più sedimentate regole narrative, e passare dal melò al giallo, dall'histoire d'amour all'amour fou che conduce direttamente e senza tanti cerimoniali al delitto. Ecco, lo stesso discorso, seppur con tempi e modi dissimili, potrebbe valere anche per l'iraniano Farhadi, che comincia Una separazione (2011) come un film sull'Alzheimer e poi, con un colpo di bacchetta, lo fa diventare un kammerspiel polanskiano, e saccheggia la commedia sentimentale per About Elly, prima di trasformare la farsa in tragedia e rifare L'avventura (1960) di Antonioni.
Ci sono quattro coppie di Teheran, che affittano una casa in riva al Mar Caspio per trascorrerci uno spensierato fine settimana. Tre di loro sono sposate e hanno pensato di invitare il giovane Ahmad (Shahab Hosseini), divorziato e appena tornato dalla Germania, per fargli incontrare la bella e altrettanto giovane Elly (Taraneh Alidoosti), maestra di scuola della figlia di Sepidé, che più che un'amica è soltanto una conoscente. In ogni caso, tutto sembra andare per il meglio, i due hanno modo di fare amicizia, di avvicinarsi l'uno all'altra, fino a quando, per un incidente o una banale distrazione, uno dei bambini della compagnia cade in acqua e rischia di annegare. Viene salvato in extremis, ma nel frattempo Elly è scomparsa. Dove sarà finita? Si presume che sia saltata in mare per recuperare il bambino che le era stato affidato e su cui non aveva saputo vigilare, ma nessuno degli astanti ha assistito alla scena, così qualcuno presuppone che forse non sia morta, ma che semplicemente sia tornata a casa senza dire niente a nessuno. Il cadavere non si trova, e col sopraggiungere della notte le ricerche vengono sospese. Allora si telefona alla madre, troppo debole di cuore per confessarle la verità, ma la donna non vuole rivelare niente riguardo alla figlia, e perciò i disperati protagonisti di questa tragedia decidono di restare sul luogo della sparizione nell'attesa che alla mattina gli abissi restituiscano il corpo della ragazza.
Che fine ha fatto Elly, quindi? E soprattutto, chi era costei? Come sempre nel cinema di Farhadi, le certezze iniziali dello spettatore vengono smantellate una per una, perché se Elly diceva di essere nubile, e proprio per questo aveva accettato l'invito di Sepidé, presto spunta un fratello che fratello non è, ma che come tale si presenta. Comincia allora, in questa spoglia dimora in riva al mare, una disamina sulla colpa e sulle responsabilità dell'accaduto, e mentre le speranze di ritrovare la ragazza in vita si assottigliano sempre di più col passare delle ore, il rimorso si fa insostenibile e come una malattia contagia tutti i protagonisti. C'è chi punta il dito addosso alla moglie, c'è chi si assume torti che forse non meriterebbe, c'è persino chi confessa, tra le lacrime e i singhiozzi, di aver saputo qualcosa che fino a quel momento, per la vergogna e per l'umiliazione, non aveva avuto il coraggio di ammettere. Aggiungere altro sarebbe di cattivo gusto, perché si sciuperebbe il piacere di una visione “vergine”, cioè priva di tutti quei piccoli indizi che, se rivelati, anticiperebbero quanto soltanto la storia ha la prerogativa di raccontare.
Asghar Farhadi, al suo quarto lungometraggio, insegna che la forma cinematografica non è niente senza la sostanza che la rende tale, e che un ottimo film, cioè un film capace di parlare all'anima dello spettatore anziché sedurne sterilmente i sensi, raggiunge la sua massima perfezione proprio nell'equilibrata sintesi tra questi due elementi complementari. Forma e sostanza. Bellezza e intensità. Voluttà ed eleganza.
Marco Marchetti
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