Magazine Cinema
’Cause no one would like to admit
That there is a city underground
Where people live everyday
Off the waste and decay
Off the discards of their fellow man
(Tracy Chapman – Subcity)
Il connubio titolo + locandina è l’apripista perfetto: i giorni oscuri che vengono citati sono realmente stralci di sottovite che non conoscono il sole, ma nemmeno le stelle: gli homeless di questo film hanno come cielo la parte nascosta della strada. Tradotto: un tetto lo hanno, ma è di asfalto. E poi ci sono quei binari che vengono inghiottiti dall’oscurità, semplificazione di un futuro che, almeno in partenza, non sembrerebbe avere nessun’altra via di fuga se non quella che porta nel buio. È una storia vera che Wikipedia, bontà sua, ci illustra sapientemente (link): in soldoni questo Marc Singer che mai aveva avuto a che fare col cinema, trasferendosi a New York viene a conoscenza di una specie di comunità “residente” in una zona abbandonata della metropolitana chiamata Freedom Tunnel, qui si avvicina a loro e in qualche modo se li prende a cuore; nasce un’idea folle: fare un film per aiutarli, usare il cinema come cassa di risonanza per far sapere agli abitanti della city che mentre passeggiano sui prati di Central Park qualche metro sotto uomini e donne vivono dentro catapecchie di cartone, hanno a che fare più con i ratti che con le persone e si lavano con l’acqua fredda che sgocciola dal dedalo di tubi sopra le loro teste.
Risultato di una scrematura ottenuta da un totale di 50 ore di girato per la bellezza di circa 2 anni di riprese, Dark Days, uscito ufficialmente nel 2000, presenta una veste grezza che non possiede alcuna accezione negativa per chi scrive; il modo più ficcante per raccontare una realtà del genere non poteva che essere questo bianco e nero, sgranato, emaciato, perché è esattamente ciò di cui si parla: il colore è un concetto impraticabile, ancora prima di finire là sotto gli abitanti del tunnel hanno visto la loro vita stingersi amaramente: questioni di crack, di violenze, di prigione, insomma Singer giunge all’ultimo stadio involutivo di questo gruppo, il traguardo nella fogna dopo la discesa sociale: quello che li allontana dalla civiltà in un procedimento di auto-esclusione nel quale si ritrovano senza dispiacersene troppo, c’è chi infatti millanta gli optional del posto (corrente, gas, acqua) senza dover pagare una bolletta. È un fiume in piena di parole mangiate e parolacce che nella foga verbale ben delineano la condizione emotiva dei protagonisti, i quali non mancano mai di infarcire ogni frase con un sostantivo come shit o un aggettivo come fucked up.
Grezzo sì ma con particolari stilistici in grado di allietare un prodotto che per sua natura potrebbe fare a meno di qualunque rifinitura tecnica. Eppure il prologo con la mdp che segue uno dei vagabondi inoltrarsi nel sottosuolo convince, anche perché è rinforzato da un carrello laterale straniante e dall’immagine di un tizio avvolto da un lenzuolo bianco che cattura l’occhio. Tra una testimonianza e l’altra c’è anche spazio per alcune sottigliezze, giochi di montaggio in cui prima due barboni raccolgono del cibo dalla spazzatura invocando un po’ di latte, e subito dopo vengono mostrati due topi che si aggirano intorno ad una bottiglia di plastica bianca. Riabilitazione inaspettata nel finale: il messaggio è positivo, riemergere dalle tenebre è possibile ed un letto su cui sdraiarsi non è più utopia. Il passato è stato demolito.
Poscritto.Sarà deformazione cinefila o quel che più vi piace, ma la storia di Marc Singer ricalca per sommi capi quella di Artour Aristakisian. Ci sono tutte le divergenze del caso, sia nelle motivazioni che negli esiti, ma L’ultimo posto sulla Terra (2001) e Dark Days funzionano per lo stesso motivo: essendo praticamente coevi, la loro istantanea del presente stride con gli auspici di un’umanità pronta ad accogliere il nuovo millennio. A più di dieci anni di distanza, queste due opere mantengono intatte una cifra e(s)terna, anacronistica, e allo stesso tempo realmente incombente su di noi.
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