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Lei è abituato a vivere sotto i riflettori. Com’è stare dall’altra parte della macchina fotografica? Non è una storia di ego. È un modo di vedere le cose esattamente come le pensi. Il bello del fotografare è che si riesce a bloccare quello che la tua immaginazione vede nella persona. Fermi l’attimo. La concentrazione è maggiore, tiri fuori il carattere, la bellezza, l’autenticità che a occhio nudo, col movimento, a volte perdi perché ti distrai. La macchina fotografica permette di costruire un rapporto personale, intimo. È magia.
Alla mente tornano i fotogrammi di Blow up di Michelangelo Antonioni… Un po’. Avendo lavorato negli anni con tutti i grandi fotografi, facendo in pratica lo stylist per loro, impari a costruire l’immagine, a riconoscere la bellezza al di là dei canoni classici del concetto modello o modella. La fotografia si fa con il cuore. Ma se non si crea una sinergia, le foto riescono male. Con persone che non conosci, è ancora più bello questo meccanismo, conta più la complicità del farsi conoscere. La fotografia è pura verità. Ti mette a nudo anche se sei vestito.
Secondo lei perché stilisti come lei, Karl Lagerfeld e Hedi Slimane hanno incominciato a scattare? Conosco tante persone che fotografano ma fanno mestieri normali. Noi abbiamo la fortuna di farci notare subito. La fotografia viene dal cuore anche per noi che siamo abituati a lavorare con immagine.
Dove sono nate la sua conoscenza e la sua passione? Con questo lavoro, quando sono arrivato a Milano a 19 anni. Quando ho iniziato a fare moda, ho scoperto Richard Avedon, Helmut Newton, Irving Penn ma anche Man Ray o Bresson. È incredibile. Racconti un’era, un’epoca, un popolo con un’immagine. Racconti la guerra, la fame, la gioia, l’allegria, la vita.
Cosa ricorda dei fotografi con cui ha lavorato? Abbiamo collaborato fin dall’inizio con nomi come Fabrizio Ferri, Steven Meisel, Gian Paolo Barbieri, Ferdinando Scianna, Peter Lindbergh, Mario Sorrenti, Helmut Newton. Ora anche dei giovani molto interessanti come Giampaolo Sgura e Mariano Vivanco. Dai grandi impari la loro visione tecnica ed estetica. Come sfiorano chi hanno davanti all’obbiettivo.
E i momenti emozionanti? Ne ho vissuti tanti. Penso a Meisel che quando tocca i capelli di una modella, per magia tutto è bellissimo. Anche senza trucco. E tu dici, non è possibile. O l’ironia di Newton. O Annie Leibovitz che doveva scattarci in un servizio dove tutti erano in tuxedo. Ci ha visto arrivare e ha subito deciso di fotografarci come eravamo, con il nostro stile. È importante capire il carattere di chi hai davanti.
E sul suo set come è andata? A parte tre o quattro, sembravano tutti professionisti. Ho capito che è più bello fotografare persone vere che modelli. I modelli sono solo finzione, loro sono veri. Alcuni ti sorprendevano. Capisci il talento, hanno qualcosa in più, il carattere. Facevo styling chiedendo a loro di cosa avessero voglia, se elegante, sportivo. Loro si affidavano ciecamente e io preparavo lo stage con i props. Ogni shooting durava al massimo tre quarti d’ora, non volevo troppa confidenza. Quando conosci troppo non sogni. Invece io volevo sognare.
Cosa diceva Stefano Gabbana di questa avventura? Lui mi ha spinto molto. Ogni tanto veniva ad aiutarmi sul set facendo un po’ di styling.
Non aveva paura a mettersi in gioco? Mi sono detto, io ci provo. Male che va non pubblico niente. Quando ho finito, ho guardato le immagini. Ho chiesto a Stefano e a qualche persona di cui mi fido: «Faccio una brutta figura?».
Ha in serbo nuovi progetti in questo campo? Non lo so. Ne ho iniziato un altro da tre o quatto mesi, penso che lo finirò a settembre e si vedrà. Per ora questo era un esperimento.
C’è la classica foto impossibile che vorrebbe realizzare? No. Non ho di questi sogni…
E la prima immagine che ricorda? Era uno scatto realizzato da Irving Penn. La foto della modella con un capello da prete e retina in faccia. Amo i cappelli da morire.
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