David Gordon Green: all the real boys

Creato il 05 maggio 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

La carriera di David Gordon Green per certi versi ricorda quella di Kenny Powers, il protagonista della serie televisiva Eastbound & Down: Kenny, potenziale stella del baseball, fa crollare a picco la sua carriera per i suoi atteggiamenti autodistruttivi, dopo qualche tempo, ormai senza un soldo, è costretto a tornare nella sua città natale dove cerca di recuperare la fama svanita. Questa serie HBO che vede il coinvolgimento diretto di Green, il quale ha diretto svariati episodi e lavorato come consulting producer, è un episodio tangenziale nella carriera del regista, ma ci racconta del suo mondo e della sua storia. Certo, Green non ha avuto necessità economiche gravi, così come sarebbe improprio parlare di deliberata autodistruzione, però è raro vedere la carriera di un cineasta, in così breve tempo, oltrepassare l’eclettismo per prendere la forma di un’apparente ascesa e caduta. Seppur a uno sguardo attento tutto sembra quadrare, il salto da una gemma dell’indie americano come Undertow a una commedia blockbuster come Lo spaventapassere (sì, usiamo l’orrido titolo italiano perché rafforza l’idea) non può non lasciare sorpresi. Da Malick ad Apatow in una mossa, per poi ritornare sulla scena condensando tutto quanto in una pellicola che non ti aspetti.

Il trait d’union, infatti, è proprio il recente Prince Avalanche, un bizzarro bromance malinconico, nitido esempio della contaminazione tra la poetica del regista e l’umorismo sperimentato in film come Strafumati e Sua Maestà. La ricerca della fama perduta, come parte della critica cerca di descriverla, invece è ora racchiusa nella sua ultima opera, quel Joe che segnala il ritorno del David Gordon Green cantore del Texas redneck. Un nostos spiazzante per un regista da molti ormai considerato perduto. Ma di cosa parliamo quando parliamo di David Green (il Gordon, dalla connotazione afro-americana, decise d’utilizzarlo per differenziarsi dai numerosi colleghi omonimi)? Nato in Arkansas, ma vissuto in Texas, si fa notare con il suo film d’esordio George Washington, pellicola dal realismo magico (di cui, anni dopo, si ricorderà Benh Zeitlin per il suo Re della terra selvaggia) in cui emerge già il contrasto tra il romanticismo dei personaggi e la durezza dell’ambiente in cui vivono. Segue la “commedia romantica” All the real girls, storia apparentemente ordinaria di un amore di provincia. Questo dittico, a nostro giudizio il vertice dell’opera di Green, racchiude tutto ciò che condusse Terrence Malick a interessarsi di questo giovane regista, tanto da volerne produrre l’opera successiva. Entrambi i film raccontano la provincia americana con sguardo sognante e distaccato al tempo stesso (ovvio quindi pensare a un film come La rabbia giovane), alla ricerca d’un effetto straniante che vive di sceneggiature atipiche, non detti, dialoghi naturalistici, lunghe inquadrature statiche, voci narranti, ottimismo sotterraneo e sospensioni temporali; ciò che colpisce maggiormente, però, è l’interesse verso un’umanità semplice, umili lavoratori che sognano l’impossibile, gente vera che sguazza in una continua lotta alla sopravvivenza. “Ai personaggi di Green non resta che prender atto di una natura umana che mette la sopravvivenza sempre e comunque prima dei sentimenti, necessari in ogni caso a colmare i vuoti dell’esistenza e allontanarsi dalla disperazione” (1).

Questo si nota in maniera chiara in Undertow, dove spirito southern, duro realismo e afflato biblico creano una commistione che ritroveremo anche nel recente Joe. Una formula con minime variazioni che il regista cerca d’applicare anche a Snow Angels, dramma dalle venature thriller che traccia efficacemente la psicologia dei personaggi, ma difetta nella gestione del ritmo narrativo e nell’equilibrio tra i generi cinematografici. Ecco, è questo il momento in cui David Gordon Green inizia a lavorare su commissione, smarrendo apparentemente la via maestra. La verità è che ancora oggi il sogno della critica è ingabbiare un regista in un universo, un genere, uno stile, una poetica monolitica e definita. Insomma, perpetuare il mito dell’Autore. Quanto di più lontano dai desideri di un regista mercuriale, onnivoro, curioso, mai sazio d’esperienze e che gioca a spiazzare prima se stesso che il pubblico. Non è un caso che la sua carriera sia lastricata d’innumerevoli e spesso folli progetti abbandonati. L’unica certezza, come testimoniano le sue parole, è che David Gordon Green si diverta parecchio ad allontanarsi dall’immagine che molti cercano forzatamente d’attribuirgli. “I have a sense of humor. I’m not always this lyrical, slow-moving, Southern crybaby.”

Rosario Sparti

Note

(1) Marco Cumin, New American Indie, Nocturno Dossier n.48, 2006


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