Magazine Cinema
Regia: Sion Sono
Interpreti: Ryo Ishibashi, Akaji Maro, Masatoshi Nagase
Fotografia: Kazuto Sato
Montaggio: Masahiro Onaga
Un’immagine sfocata quella della società giapponese dipinta dal regista e sceneggiatore Sono Shion, come nella scena iniziale, in cui lo sguardo si perde fra la folla e in cui l’orecchio non percepisce alcuna conversazione, alcun movente. All’improvviso, 54 liceali nelle loro candide divise da scolarette si allineano su un affollato binario della stazione di Shinjuku, si prendono per mano e saltano all’unisono sotto un treno in transito.
Una musica trionfale fa da colonna sonora al gesto estremo di una ‘tribù di soldatesse della morte’ e alla prima di una serie di violente sfide di una gioventù annoiata. Suicide Club esordisce con una premessa esaltante da horror che genera nella prima parte del film una trama convincente in cui si indaga sul misterioso suicidio di gruppo.
Il detective Kuroda lavora sul caso seguendo diverse piste, mentre in tutta la città scoppia un’epidemia di suicidi giovanili. Inizialmente convinto che si tratti di una mera coincidenza o di un incidente, Kuroda ora teme di essere di fronte a una nuova moda, a un’epidemia contagiosa. All’improvviso, una telefonata anonima di un otaku cambia la rotta delle indagini: il mondo adulto dei poliziotti si affida ai giovani navigatori della rete per avere accesso a un universo sconosciuto, quello degli hacker, dei messaggi in codice, delle chat e delle community.
La trama si va arricchendo di elementi bizzarri e forse non sempre necessari all’economia del film. L’horror si trasforma in un criptico documentario sulla problematica sociale del suicidio, per poi convertirsi a thriller grottesco nella tradizione di Ring e di Audition e di nuovo a un horror poco convincente. Interessante il finale aperto, un’immagine nitida del caos ideologico e sociale che pervade il Giappone del dopoguerra e che si palesa nei suicidi di massa. In Suicide Club, nessun personaggio è a fuoco; il protagonista ora è uno, ora l’altro, ora un gruppo di liceali, ora una famiglia. La vera protagonista di questo film forse è la società, una società alienata ritratta fra i vagoni di un treno, fatta di passeggeri annoiati, di stanchi lettori di manga, di lavoratori nauseati. È una società alienata ritratta davanti a una TV che a intermittenza trasmette le notizie agghiaccianti dell’epidemia di suicidi e i videoclip delle “Dessert” (il nome cambia continuamente durante in film in Dessart, Desert and Dessret), un gruppo JPop di dodicenni che fa impazzire la gioventù nipponica.
Il film di Sion Sono presenta una delle problematiche più difficili del dopoguerra giapponese. Dopo che nell’agosto del 1945 il tabù fu violato e migliaia di vite furono rubate al loro destino, la morte volontaria non è forse l’unico mezzo attraverso il quale ci si può riappropriare della propria esistenza?
Il suicidio di massa è la negazione alla vita di un gruppo che ritiene che la morte sia l’unica cosa di cui si è padroni e tale negazione può essere esibita in una performance. L’autodistruzione della gioventù nipponica di Sion Sono non ha neppure una funzione compensatoria in una società disfunzionale. È un atto insignificante e improduttivo, ma per lo meno è meno noioso della morte naturale. È pura arte per arte.
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