di Benedetto Rocchi – Università di Firenze
un qualsiasi processo di sviluppo implica anche una crescita dimensionale. Per questo non vedo opposizione tra crescita economica e sviluppo della società. Mettere al centro il concetto di “crescita” (come fanno i sostenitori della decrescita) indica una certa semplificazione ideologica. Sul piano economico, Pasinetti ha messo in luce i limiti dei modelli di crescita omogenea, mostrando che, con l’accumulazione delle conoscenze, l’aumento di ricchezza sociale implica la soddisfazione dei nuovi bisogni che l’aumento del reddito fa emergere.L’insistenza sulla diminuzione del PIL è solo la punta di un iceberg di semplificazioni. Ad esempio Serge Latouche sostiene, tra i punti del suo “decalogo decrescista”, la necessità di una moratoria nello sviluppo di nuove tecnologie, preconizzando allo stesso tempo la fine del lavoro attraverso una più ampia sua distribuzione (il vecchio “lavorare tutti, lavorare meno”) e l’orientamento verso l’autoconsumo. Ma l’esperienza storica mostra che nelle società rurali a tecnologia arretrata e basate sull’autoconsumo si lavora tutti (eccetto forse alcuni gruppi sociali privilegiati) ma, ahimè, si lavora molto! Basta farsi raccontare dai vecchi delle nostre campagne la vita che facevano per farsi un’idea di quanto la tecnologia sia stato uno strumento di “liberazione” dal lavoro.
Un’altra semplificazione collega la decrescita con la conservazione delle risorse naturali non rinnovabili, sulla base dell’ipotesi che più PIL significhi più consumi materiali e quindi crescente depauperamento delle riserve. Ma il PIL può crescere anche per incremento della qualità dei beni prodotti e non della loro quantità (come ha sottolineato Musu in questo dibattito). Inoltre lo stock di risorse naturali è un concetto sfuggente, la cui definizione (e misura) dipende dalla tecnologia a disposizione. Quelli che sono apparsi nel passato come problemi “globali”, oggi ci sembrano limiti ambientali “locali” e risolvibili con un’adeguata tecnologia. In assenza di possibili “misurazioni” (tutte le misure sperimentali sono stime soggette ad errore, figuriamoci la “misurazione” globale di risorse scarse) il concetto stesso di stock “globale” diventa essenzialmente politico. Ovviamente si devono considerare i limiti posti dall’ambiente all’azione umana, talvolta adottando comportamenti precauzionali; ma quanto più la scala si fa globale tanto più il confronto tra costi e benefici si fa incerto e la decisione si fa politica (vedi ad es. Lindzen http://www.euresisjournal.org/public/article/pdf/EJv2id9_SM2008_Lindzen.pdf). La contrapposizione tutta politica tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo sulle emissioni di gas clima-alteranti lo dimostra.
La questione si fa ancora più complessa quando si parla di sviluppo umano, cioè dell’uomo in tutte le sue dimensioni. I sostenitori della decrescita hanno uno sguardo pessimista sulle società umane. Forse per questo fanno affidamento sulla soluzione politica. Come ricordava Simona Pisanelli nel suo post dell’11 febbraio, Wolfgang Sachs afferma che “i cambiamenti sul larga scala non esistono senza politica”: infatti la ricetta proposta dal rapporto del Wuppertal Insitut sul “Futuro Sostenibile” (www.edizioniambiente.it/eda/catalogo/libri/609/) per passare da una “economia dell’efficienza” ad una “economia della sufficienza” consiste nel pianificare i consumi materiali con una regolamentazione dei comportamenti individuali. Sarebbe necessario che la “moderazione delle pretese” diventasse “una priorità nella politica” e “nella cultura di massa”. In sostanza, spostare il baricentro verso decisioni centralizzate, nonostante nello stesso rapporto la politica e lo Stato vengano descritti, non a torto, come asserviti troppo spesso all’economia e alle sue lobby.
Non esistono soluzioni semplici: neanche sulle diseguaglianze, che pure siamo molto più capaci di “misurare”. Il problema distributivo esiste anche nelle economie pianificate; e l’esperienza storica dovrebbe spingerci a grande prudenza su questo punto.
Lo sviluppo, quando è sviluppo umano, è per definizione sostenibile: da un punto di vista economico, sociale e ambientale. Una decrescita economica verso un (immaginario) stato stazionario mi sembra un progetto sostanzialmente conservatore (forse con residui di un certo imperialismo culturale ereditato dal positivismo).
Non c’è bisogno tanto di diminuire il PIL, quanto piuttosto, come afferma Luigino Bruni, di una decrescita delle transazioni economiche nella regolazione della vita civile. Un tipo di decrescita a favore dello sviluppo umano, che chiede però meno politica e più società: “i prossimi decenni dovranno essere necessariamente caratterizzati da una decrescita e ritirata della politica (non solo e non tanto una decrescita della economia) per far spazio al civile e alla sfera pubblica, poichè più un sistema è complesso meno pesante deve essere la mano che entra dall’esterno nelle sue dinamiche” (L. Bruni, Le nuove virtù del mercato nell’era dei beni comuni, Roma, Città Nuova, 2012: pp.10-11).