Farsi il mazzo, come è noto, vuol dire ammazzarsi di lavoro. Ma all’origine dell’espressione non c’è, come si sarebbe potuto pensare, la parola deretano, l’innominabile culo, ma l’antica, nobile arte tipografica.
Tra le pagine di quel romanzo sublime che è Illusioni perdute di Honoré de Balzac, ho scoperto che il mazzo era un cuscinetto a forma di fungo rovesciato con il quale i tipografi dell’Ottocento spalmavano con grande fatica l’inchiostro sulle forme…e si facevano appunto un mazzo tanto.
Poiché nelle botteghe tipografiche non c’erano i rulli inchiostratori, l’inchiostro da stampa, denso e vischioso come il miele, veniva steso sui caratteri utilizzando curiosi tamponi, cosiddetti mazzi, che avevano un manico di legno per l’impugnatura e, all’estremità opposta, un cuscinetto di feltro a forma di fungo rovesciato, ricoperto di cuoio. (Tra parentesi il cuoio, curiosità nella curiosità, era prodotto dalla lavorazione della pelle dei cani, l’unica pelle compatta e senza pori visto che il cane, beato lui, non suda).
Ogni giorno che Dio mandava in Terra il povero inchiostratore doveva fare e disfare, inchiostrare e pulire, questo benedetto mazzo. Anzi i mazzi….sì perché gli aggeggi erano due e il ‘battitore’, questo il nome del tipografo addetto all’operazione, spalmava l’inchiostro su due mazzi: giustapponeva i tamponi ruotandoli l’uno contro l’altro in modo da rendere uniforme lo strato di inchiostro necessario alla stampa e, come se non fosse bastato, alla fine della giornata doveva pure schiodare la pelle, pulirla e metterla a bagno nell’urina perché si mantenesse morbida. Insomma, un c..o così.
Honoré de Balzac ritratto da Nadar (dagherrotipo del 1842)
E si era fatto un mazzo tanto anche Honoré de Balzac il quale, nel 1826, s’era preso il brevetto di tipografo e aveva aperto una stamperia, poi fallita. E menomale che era fallita… che se le cose gli fossero andate bene, non sarebbe diventato lo scrittore immenso che è stato, non avremmo avuto La Commedia umana e non ci avrebbe lasciato quel meraviglioso racconto dal titolo Una stamperia di provincia dove si narra la storia del tipografo fallito David Séchard alle prese con un poeta anche lui mezzo fallito Lucien Chandon. Un sublime romanzo nel romanzo, che è anche un gustoso trattato dell’arte tipografica del XIX secolo.