Una dedica speciale a tutte le donne: alcune frasi tratte dal libro Malamore di Concita De Gregorio
Le donne provano la temperatura del ferro da stiro toccandolo. Brucia ma non si bruciano. Respirano forte quando l’ostetrica dice «non urli, non è mica la prima». Imparano a cantare piangendo, a suonare con un braccio che pesa come un macigno per la malattia, a sciare con le ossa rotte. Portano i figli in braccio per giorni in certe traversate del deserto, dei mari sui barconi, della città ai piedi su e giù per gli autobus. Le donne hanno più confidenza col dolore. Del corpo, dell’anima. È un compagno di vita, è un nemico tanto familiare da esser quasi amico, è una cosa che c’è e non c’è molto da discutere. Ci si vive, è normale. Strillare disperde le energie, lamentarsi non serve. Trasformandolo, invece: ecco cosa serve. Trasformare il dolore in forza. Ignorarlo, domarlo, metterlo da qualche parte perché lasci fiorire qualcosa. È una lezione antica, una sapienza muta e segreta: ciascuna lo sa.
«Le femmine servono ai cuccioli» dice il bambino seduto davanti alla tv, danno un documentario sugli animali. Poi ripete: «Lo sai mamma? Le femmine servono perché devono fare i cuccioli, i maschi da soli non li possono fare».
Non c’è dubbio, i maschi da soli non possono. Però le femmine non «servono» solo a fare i cuccioli, penso di rispondere. Non dico niente, invece. Ci sono cose che non si spiegano con le parole. Lo capirà, lo vedrà, lo imparerà strada facendo. Certo, bisogna sempre ricominciare da capo. A ogni generazione di nuovo. Dimostrare, convincere. A cosa servono le femmine? Sembra proprio, nelle parole di un bambino, l’origine di tutte le questioni. Non sono sicura che a fare la stessa domanda a cento adulti, uomini e donne, si otterrebbero risposte convincenti. «Servono a far più bella la vita» mi ha risposto un amico credendo di dire cosa gradita, immagino sentendosi galante. Deve essere qui il cuore di tutto. Siamo proprio certi che le femmine servano a qualcos’altro che a fare i cuccioli, a rendere piacevole l’esistenza altrui? E loro, le donne, dietro le parole e i gesti di una sicurezza ogni giorno esibita in pubblico ne sono davvero convinte in privato? Cosa sono disposte a offrire a sopportare in cambio della possibilità di dimostrare che no, non servono solo a fare i cuccioli né ad allietare con la loro deliziosa presenza le impegnative vite altrui? Ma soprattutto, perché in fondo sentono, anche quando non lo dicono, di doverlo dimostrare?