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Deeqa Aden Gures, morte (accidentale?) di una mediatrice culturale

Creato il 11 maggio 2013 da Andreaintonti

Torino - 2 ottobre 2012, ore 3 del mattino. Una telecamera di sicurezza ha appena ripreso una donna, sul ponte che da piazza Vittorio Veneto porta alla cattedrale della Gran Madre. Dopo qualche passo incerto si ferma e si accascia al suolo, senza rialzarsi più. Un minuto e mezzo dopo un'automobile la travolgerà, forse uccidendo Deeqa Aden Gures, 39 anni, mediatrice culturale appartenente ad una delle famiglie più ricche ed importanti della Somalia, conosciuta come l'”angelo dei rifugiati”, in particolare di quei rifugiati somali che, riproponendo la divisione in clan che ne distingue la società, grazie a lei erano riusciti ad unirsi per difendere insieme i loro diritti.

Il “forse uccidendo” non è un refuso né un errore. Perché fino ad ora, a sette mesi di distanza, l'unica certezza è che Deeqa è morta con la testa schiacciata. Il perché, il come ed il chi rimangono un mistero. Per questo – e per portare la vicenda all'attenzione di cittadini e mezzi di informazione – è stato costituito il “Comitato per la verità su Deeqa”. Forte è, infatti, la volontà di fare chiarezza, in particolare di Luigi Tessitore, marito della donna e consulente per il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), che all'agenzia di stampa Redattore Sociale ha tentato di spiegare i tanti misteri legati a questa morte.

Innanzitutto l'idea che il claudicare sia da ricondurre all'alcol. «Il pm, con un giro di parole a mio avviso poco edificante vorrebbe darci a intendere che fosse ubriaca: sarebbe caduta priva di sensi, in una sorta di coma etilico, e in seguito investita» anche se, evidenzia Tessitore, «Il tasso alcolico era dello 0,3, ossia l'equivalente di una birra piccola». È per questo, probabilmente, che la Procura della Repubblica di Torino ha chiesto l'archiviazione del caso.
Inoltre un mistero rimane anche l'investimento. L'autopsia non è riuscita a determinare se le ferite al cranio siano da attribuire alle ruote dell'automobile o ad eventuali percosse tramite bastone o mazza da baseball, in quanto non ci sono tracce di pneumatico sul cranio né sul luogo sono stati rinvenuti sangue e materia organica, tanto da rendere incerta persino la dinamica dell'investimento, impossibile da chiarire anche con le riprese della telecamera, le cui immagini non sono nitide.

Sempre più forte diventa il timore che questo non sia un incidente ma un omicidio, date anche le minacce che nelle tre settimane precedenti la morte la donna aveva ricevuto fisicamente e telefonicamente anche in maniera palese, come quel “Deeqa verrà fatta fuori stanotte” scritto il 30 settembre addirittura su Twitter. Minacce delle quali erano stati messi al corrente il marito, alcuni collaboratori della donna ed alcuni rifugiati. Troppe persone per non considerarle come reali.

Infine c'è l'”invito”, il foglio A4 ritrovato in una tasca su cui c'era scritto – con calligrafia diversa da quella di Deeqa - “ci vediamo in “Drogheria””, un locale di piazza Vittorio.

Ma chi poteva volere la morte di Deeqa? «Negli anni mia moglie aveva messo a nudo una realtà controversa, quella delle imprese che, tramite gli appalti della Protezione civile, gestiscono l'assistenza ai rifugiati facendolo spesso in maniera sommaria, con la minima spesa e il massimo profitto» - ha raccontato Tessitore all'agenzia - «Si era inoltre scontrata con i cosiddetti “dottori”, i notabili delle famiglie somale presenti da decenni a Torino. Alcuni di loro, ed è un fatto noto, nutrivano un avversione che rasentava l'odio nei confronti di mia moglie. Ed è singolare come queste persone siano sparite subito dopo la sua morte: sono tutti irreperibili al momento, nessuno di loro si trova ancora in città». «Questi uomini sono in aperto conflitto con i giovani rifugiati somali: li considerano la “vergogna del paese”. E non gli andava affatto a genio che mia moglie si adoperasse per aiutarli».

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