Primo: disfarsi dei panni professionali e mettersi comodi. Il papà lavora come un mulo tutta la settimana. Il venerdì sera, giusto prima di entrare nella doccia che è come la camera di pressurizzazione a un passo dalla vita normale, osserva con rammarico il colore del colletto della seconda camicia fatta fuori in cinque giorni a trasudare stress. A lavorare a Milano e tornare nell’hinterland ogni sera si è soggetti a quella specie di fotosintesi – passatemi il termine – nel senso che si respira la merda che c’è nel’aria del centro, con l’accezione propria e allegorica, e la si restituisce all’ambiente in forma di schifezza corporea. Il colletto la recepisce perché a contatto con una zona poco nobile, meglio di altre ma lì dietro dove non ti vede nessuno tendi a far uscire il peggio di te.
Secondo: il sabato mattina è casual perché si porta fuori la prole ché la mamma si prende un po’ di respiro con i mestieri. Sai che respiro. Il papà vede – probabilmente per la prima volta nella settimana che volge al termine – da vicino il suo discendente e in quelle poche ore si deve dimostrare un valente educatore, un pratico genitore, un compagno di giochi, un amico fidato, un surrogato di animatore, un allenatore di pattini – volley – ciclismo – ginnastica artistica o calcio a seconda del sesso. Così lo sconforto lo spinge verso primo spiazzo grigioverde – cemento con piantumazione pianificata – a disposizione.
Terzo: i padri devono per forza approfittare del primo sole di primavera per indossare i jeans scoloriti di fabbrica con sneakers d’imitazione, sotto a giubbe sportive con le quali non sono più a loro agio e a malapena contengono i chili prominenti. Il loro ruolo è quello di spingere altalene e giostre con maggior forza di quello che le madri riescono a fare nei giorni feriali, fino a quando trovano altri papà di figli unici con i quali fumare una sigaretta e scambiare qualche impressione mentre i figli hanno fatto amicizia. Ma le parole sono svuotate di carattere, come se quelle d’ordinanza da usare in ufficio fossero finite in lavatrice con il resto del bucato a cui le rispettive mogli si stanno dedicando a casa e ora indossassero i verbi del disimpegno e quelli che si lasciano in cantina come le scarpe che non vanno più di moda ma comunque ti spiace darle ai poveri perché le hai messe poco e sembrano nuove. Cose di riserva, ecco, che le metti in campo quando non hai nulla da perdere o non ti vede nessuno. Altri su suggerimento delle neo-mamme si lanciano spingendo carrozzine e passeggini come meri badanti dei loro pargoli, che abbagliati dalla luce inusuale per quell’ora in cui di norma sono nella semioscurità delle loro scuole per l’infanzia alla fine si addormentano cullati dalla mano incerta dei papà dietro, che a differenza di quelli che restano nei cortili sfoggiano il meglio del vestito della festa, per non far sfigurare il bambino davanti e che nessuno possa avere un’obiezione sullo stile da persona matura e responsabile. Li vedi chinati giù dalla loro altezza per guardare negli occhi i figli, abbottonargli il paltò che fa caldo ma non si sa mai, ammalarsi dev’essere un attimo per queste creature indifese e sconosciute. Le stesse che torneranno a sorridere il lunedì successivo sui desktop dei pc, pronte ad essere messe in secondo piano dagli applicativi di routine.
Quarto: ci sono quelli che poi andiamo a teatro solo tu e io, nella penombra difficile da sostenere desti fino agli applausi finali. Anche il cinema è a rischio, ve lo dico qualora pensiate che i cartoni e i film per i più piccoli siano in realtà prodotti per adulti camuffati da cartoon per ovvi motivi di strategie di marketing. Alcuni si, altri spesso vengono sopravvalutati, con i trailer che addirittura ne danno una visione poco fedele alla realtà. Ci sono poi i laboratori pomeridiani organizzati presso i musei, mostre o iniziative culturali, alle quali però è bene prenotarsi con lauto anticipo. Lì, fateci caso, si trovano per la maggior parte figli unici soprattutto in giornate di sole, perché le famiglie con due o più bambini sono tutti al parco a giocare insieme ai loro fratelli e al laboratorio vacci tu che noi, in quattro o più, siamo autosufficienti. In tre bisogna inventarsi qualcosa di continuo, per questo si va ai laboratori. Milano ne è piena e l’obiettivo è sempre quello di far socializzare il bimbo che altrimenti starebbe a casa a guardare la tele.
Quinto: eppure alla fine sono molti i padri che riescono a recuperare, in quei ritagli di vita. Certo, ad aver pochi spazi poi ai figli sembra tutto speciale e prezioso, in alcuni casi l’abbondanza genera il calo di valore anche se io non ci credo, nei sentimenti più dai e meglio è, spero siate d’accordo. Io ho avuto la fortuna di trascorrere molto tempo con mia figlia, ci siamo concessi momenti in cui è stato bello anche stare insieme ma fare cose diverse, non voglio passare come l’eroe dei piccini perché vi confesso di aver attraversato anche io momenti in cui avrei volentieri abdicato dal ruolo di re dell’intrattenimento. Ieri c’era il sole e così, dopo un giro in bici, ci siamo fermati al parco perché c’erano un paio di amiche della pallavolo pronte a giocare a un’evoluzione del nascondino che non saprei spiegarvi, nemmeno io ho capito le regole. Avevo il mio libro e avevo con me anche il suo ed è stata una buona idea perché terminata la partita si è seduta vicino a me, io leggevo e lei pure. Pensavo di essere troppo distante, ognuno perso nella propria storia stampata, così le ho messo il braccio intorno alle spalle. Ma lei ormai è grande e ho visto che si è sentita in imbarazzo, c’era un sacco di gente e non voleva passare per una che ancora ha bisogno del contatto fisico con i genitori. Ma per staccarsi mi ha sorriso e mi ha detto di essere troppo sudata, stando appiccicati mi si sarebbe macchiata la giacca.