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Del lavoro e altri demoni

Creato il 16 febbraio 2012 da Lanterna
Ultimamente sono capitate un po' di cose che mi hanno fatto rimuginare sul tema del lavoro, e non solo della sua conciliazione con la maternità: della sua conciliazione con le nostre esigenze e aspettative.
Fatto n. 1: messa alle strette dal marito per una serie di circostanze, una mia amica decide di lasciare il lavoro di libera professionista, che lei amava tanto e che ormai aveva ingranato, e cercarsi un part time da dipendente / co.co.co.
Fatto n. 2: un'altra amica, dipendente a tempo indeterminato in un'azienda che la tratta da schiava e per cui è costretta a fare la pendolare, si licenzia perché è stufa di aver voglia di vomitare ogni volta che fa la strada per l'ufficio. La capisco e spero che trovi presto un lavoro migliore.
Fatto n. 3: una terza amica viene presa in prova dall'azienda dei suoi sogni, a fare il lavoro che le piace e le viene meglio, con un orario part time decisamente comodo e uno stipendio più che dignitoso.
Fatto n. 4: ieri leggo da Emily un post che parla di un caso di tentata conciliazione tra datore di lavoro e lavoratrice tornata dalla maternità.
Il fatto è che io non so cosa pensare di questo sistema di lavoro. L'articolo 18 va benissimo, ma è anche il fallimento della nostra società. Perché? Perché in realtà, in un mercato del lavoro ricco e dinamico e in una società dove le tutele sociali sono ben gestite dallo Stato, l'articolo 18 e il mito del posto fisso non avrebbero ragione di esistere.
Prendiamo il mio caso. Non ho fatto fatica a trovare il mio primo lavoro, a 24 anni, e mi ci sono trovata così bene che, anni dopo, quando ormai ero da un'altra parte, il mio primo datore di lavoro è tornato a cercarmi. Ho rifiutato perché sapevo di voler mettere su famiglia e i ritmi di quell'azienda, che pure continuo ad amare, non sarebbero stati conciliabili con i miei, soprattutto durante i primi anni.
A volte ho rimpianto quella scelta, altre volte mi son detta che era indispensabile. Dopo la prima maternità, mi sono vista sottrarre un progetto che mi era stato promesso (e a cui avevo dato tutta la mia disponibilità). Sono entrata nello Stato, mi sono mortificata in un posto di lavoro orrendo a fare un lavoro per cui nessuno mi ha mai addestrata. E poi sono stata graziata con il trasferimento nel mio posto attuale.
Dal 2006 fino alla fine del 2010, ho dato a nido, tate, baby sitter e servizi comunali non meno di 400 euro al mese (in media 600/650, con punte di 1000, ovvero l'intero mio stipendo, nel mese di settembre). Sono stata costretta ad avere due auto, perché nel posto in cui vivo non è pensabile diversamente se entrambi lavorano.
Avrei fatto queste scelte se fossi stata sicura di trovare un lavoro alla fine di quel periodo? Io penso di no. Avrei sicuramente cercato di lavorare, magari da casa o magari part time, nel periodo tra un figlio e l'altro, ma non penso né che mi sarei trascinata una situazione così brutta per amore del posto fisso né che avrei odiato così tanto il ritorno al lavoro.
Ovviamente parlo per me: ci sono invece tante donne che sentono l'esigenza di tornare al lavoro pochi mesi dopo il parto. E per loro uno Stato civile potrebbe approntare nidi pubblici e servizi più aderenti alle esigenze del mondo del lavoro (per esempio, non una scuola con 3 mesi di vacanze estive e giorni di ferie sparsi a tradimento qua e là). Non parliamo poi del congedo parentale obbligatorio per i padri, che è ormai un mio vecchio cavallo di battaglia.
Adesso che i miei figli sono più grandi, la mia presenza sul lavoro è la stessa di una childfree: adesso, se non vivessi in uno Stato in cui il mercato del lavoro è veramente infame, potrei tornare a cercare un lavoro impegnativo, in grado di sfruttare le mie competenze e la mia maturità.
Per fortuna è quello che casualmente mi sta capitando nella mia struttura: sto crescendo in un ambito in via di sviluppo e probabilmente mi capiterà di fare cose interessanti.
E vedo che, nello Stato, il mio percorso è piuttosto comune: fai un periodo-purgatorio in cui, per via dei bambini piccoli, si sa che non sei affidabile (a meno che di non avere una mamma o suocera pensionate alle spalle), poi, se dimostri il tuo valore, la tua carriera riprende.
Ma quante aziende private se lo possono permettere? Perché, dal momento che si tratta di costi sociali, non se ne fa carico lo Stato? Ovviamente già paga i congedi parentali e le assenze per malattia dei figli (che inspiegabilmente non vengono sottoposte a controllo da parte del medico fiscale: perché?), ma i costi per le aziende sono molto più alti: ci sono lavori interrotti, sostituti da prendere al di là del periodo di congedo, magari anche decisioni da prendere in modo imparziale, cosa per cui sarebbe bene istituire una specie di giudice del lavoro.
E in questo caso il congedo parentale esteso ai padri può tamponare la questione solo parzialmente: in periodi particolarmente pieni per l'uno si può pesare più sull'altro, ma se i periodi di piena coincidono?
Insomma, io una soluzione in tasca non ce l'ho, ma mi chiedo se sono la sola a farmi certe domande.

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