Come in altre scuole in cui mi è capitato di entrare, per seguire dei corsi di formazione per adulti o per assistere a convegni, anche nei giorni scorsi mi sono ritrovata in un edificio in cui molte delle porte dei bagni non potevano essere chiuse a chiave.
La scuola era enorme: un istituto omnicomprensivo, molto dinamico e con una buona reputazione. Si stavano svolgendo, in un venerdi da diluvio universale, le certificazioni linguistiche di inglese e di spagnolo per cui, agli studenti locali, si erano aggiunti quelli di altre scuole e un gruppo di ragazzini stranieri in settimana di scambio culturale. La moltitudine di presenze aveva scardinato la pianificazione logistica e le assegnazioni delle aule erano saltate: certi, come me, si sono ritrovati nei laboratori sporchi e gelidi del seminterrato, tra porte cigolanti, gruppi chiassosi che passavano nei corridoi e insegnanti che entravano in continuazione a prelevare sussidi didattici, ignari del fatto che, all’interno delle stanze, si stessero svolgendo serissime prove d’esame.
A parte il freddo nelle ossa per tutta la mattina, dovuto non ad inadempienze della scuola ma alle imprevedibili condizioni atmosferiche ottobrine, mi sono ritrovata a girare per i corridoi sperando che il detto “l’abito non fa il monaco” fosse veritiero e che le condizioni strutturali ed estetiche dell’edificio non rispecchiassero quelle della didattica e dell’apprendimento.
Un campo da calcio con l’erba che arrivava alla vita, delineato da due traverse bianche arrugginite, aule zeppe di armadi polverosi pieni di materiali risalenti agli anni cinquanta, le pareti smaltate di quel giallo tendente all’ocra che tanto ricorda la diarrea, gli ascensori rotti, le sedie scalcagnate, le carte e i mocci di sigaretta sulle scale in mucchietti zuppi di acqua e neri di sporco, un’aria di vecchio e desolato che è la stessa che io ricordo esserci stata nelle scuole che ho frequentato io, fino alla maturità: questo, e molto di più, era ancora ciò che mi circondava negli ultimi due giorni come vent’anni fa.
Come si può pretendere che la scuola sia esempio di vita se cade a pezzi anche nelle ricche provincie del nord dove i soldi ci sarebbero, se fossero usati bene? Che senso ha installare una lavagna interattiva in un’aula se nei bagni i rubinetti sgocciolano, gli sciacquoni non funzionano, i pavimenti si piegano in avvallamenti e si fa lezione in stanze in cui ogni cosa suggerisce l’idea della decadenza e del grigiume? Forse da ragazzo non ci badi: forse scuola moderna a quindici anni significa che ci siano il bar, la macchinetta delle bibite ed un programma di educazione sessuale. Forse a nessuno viene voglia di farsi prestare il tosaerba di casa per farlo correre, come progetto ecologico, tra l’erba alta del cortile. O di comprarsi una latta di smalto e ad educazione tecnica imparare ad imbiancare una parete. Forse non lo si può nemmeno fare, per via della sicurezza che ci protegge, di sicuro, ma costringe insegnanti, presidi – e medici – a vivere un’esistenza di paraculismo e burocrazia perchè se succede qualcosa a qualcuno guai. Alla fine impariamo lo stesso e ci lasciamo indietro queste strutture che si afflosciano sotto il peso degli anni e del calpestio di mille e mille frequentazioni. Forse adattarsi all’ambiente fa parte delle lezioni che dobbiamo imparare sui banchi.
Quello però che mi lascia sempre incredibilmente perplessa è perchè in molte scuole italiane le porte dei bagni non possano essere chiuse a chiave. Capisco che dietro la porta, sulle due mattonelle che la separano dalla tazza, possano succedere indicibili cose ma sono le stesse che succedono oltre queste quattro pareti. Non è accettabile, nei costumi di un occidentale delle scuole elementari, medie o superiori, doversi muovere in coppia, come i carabinieri, con uno che fa il palo fuori e l’altro dentro che piscia, nella speranza che non passi il pirla di turno a spalancare la porta per vederti con le braghe a metà ginocchia e le mutande altresì calate.
Prima ancora di analizzare l’offerta didattica, fossi un genitore, io farei il giro delle latrine per decidere a quale istituto iscrivere mio figlio, ma di nascosto, non durante gli Open Day in cui ogni cosa è lustrata a festa e proverei, per una volta tanto, a calarmi nei panni di chi dovrà vivere anni, molte ore al giorno, all’interno di questi locali troppo giovani per essere chiamati antichi, troppo vecchi per essere adeguati a quello che noi, italiani, vorremmo diventassero i nostri ragazzi.