Anna Lombroso per il Simplicissimus
Mettiamola così. Un giovanotto di belle speranze, professore in un liceo di provincia, incontra, durante una gita organizzata dalla parrocchia, una robusta ragazza, reduce da un fidanzamento finito male, imprenditrice volitiva e spregiudicata, con un solido conto in banca. Lei sembra innamorarsi del nostro Mario, così si chiama il giovanotto, e lui è incantato dalle brillanti prospettive che potrebbero schiudersi per lui. Tanto che gli piace credere alle promesse di A. – per discrezione la indichiamo solo con l’iniziale –, si monta la testa, si vanta al bar della piazza che lei gli comprerà l’uliveto del nonno, trasformerà la casa colonica in un albergo, insomma è convinto di poter appendere il cappello al chiodo. Addirittura mette in vendita l’ammezzato di Via Roma, millanta con gli amici di imprese vantaggiose per tutti, manda via i due vecchi contadini che tanto poi al campicello ci penserà la ricca fidanzata. Ma non ha fatti conti coi sospettosi parenti di lei, quelli che tengono davvero i cordoni della borsa. A. prima fa finta di credere alle fanfaronate di Mario, ma poi è sempre più cauta, finché smette di rispondere ai sms coi cuoricini e TVB, si sottrae alle richieste sempre più pressanti e disperate e infine lo liquida impietosa, senza nemmeno la dichiarazione di prammatica: mi prendo una pausa di riflessione. Addirittura lo prende un po’ in giro: sei un bravo tipo, meriti di fidanzarti con una modesta e graziosa ragazza delle tue stesse condizioni, far l’amore con te è stato impressionante, si, ma preferisco star sola e godermi il mio conto in banca, finchè dura.
Chissà come finirà il romanzo di un giovane povero. A me ha fatto venire in mente che l’Austria alla fine del 2011 ha scelto la sua parola dell’anno tra 6.516 proposte inviate da singoli cittadini o emerse da un’analisi della frequenza con cui alcune parole erano apparse nei testi dell’agenzia Apa e in quelli di 72 giornali quotidiani e riviste. La scelta molto significativa caduta sul verbo composto “fremd-schämen”, di cui non si ha l’equivalente nella lingua italiana. Ma che potrebbe significare: “vergognarsi” o “provare imbarazzo” per il comportamento di altri, insomma per conto terzi, anche se questi invece ne sono immuni.
Propongo che una autorità – una più una meno – provveda immediatamente a trovare il corrispettivo italiano di fremd-schämen e ne faccia la nostra parola del secolo. Il rischio è che istituiscano la Giornata del fremd-schämen, l’accorgimento più sicuro per far cadere su di esso un polveroso e pedagogico oblio.
Se devo giudicare da me stessa, che credevo immune dalla vergogna essendo una arcaica persona “per bene”, l’imbarazzo per conto terzi sembra invece il senso più comune. Ma per essere utile dovremmo adottare questo zeitgeist come indicatore anche rispetto a casi meno categorici e imperativi di Schettino, Scilipoti, Scajola, Malinconico, Patroni Griffi. Guardando in giù e guardando soprattutto in su, in quell’empireo di impunità morale e politica, inattaccabile solo perché incaricata e delegata a farci uscire dal guado e ad agire “per il nostro bene”. E che, proprio per questo, dovrebbe avere ancora di più a cuore l’interesse generale, essere guidato dal senso di responsabilità e dalla lungimiranza, per non parlare della proclamata equità. Quella schizzinosa nomenclatura, in verità influenzabile come quel giovane povero, che ci sta conducendo con invidiabile e assertiva sicurezza in una marcia verso Atene, pur avendo visto cosa succedeva là, non accorgendosi che ci siamo già: un’isola, già tormentata e separata, annichilita da trasportatori che vogliono pagare meno il gasolio e da allevatori e contadini che non ricevono fondi e sostegni dalla Regione, forse manovrati dallo stesso presidente della regione, i farmacisti furiosi, i troppi benzinai in sciopero contro la proliferazione di pompe, gli empi tassisti penalizzati per passate illegalità con moderne iniquità, presto notai e avvocati, insomma tumulti e rivolte del pane di chi ha sempre avuto anche più o meno lecitamente il companatico. Rispetto ai quali sembrano essere sobri e severi solo gli esclusi dalle lobby in via di deregulation: operai, dipendenti pubblici, precari, indefessi pagatori di tasse, file alla Asl, taglieggiati da Equitalia, tramortiti ma ancora davvero “cittadini” e che si limitano all’arcaico sciopero.
Non so voi ma io provo una imbarazzata vergogna per chi si è chiuso in una impermeabile enclave di superiorità e distacco a difesa di interessi di “parte”. Che davanti all’evidenza hanno finto di non vedere che non esistono più differenze tra un cittadino greco, italiano, spagnolo, che tutti vivono ormai sotto la cappa di una catastrofe economica su cui non hanno alcuna possibilità di influire. Perché a decidere non sono loro, ma «i mercati» e i loro servitorelli. Che nulla hanno voluto apprendere dalla esplicita lezione greca: il tentativo di Papandreu di sottoporre a referendum del popolo greco il «piano» di austerità che l’Europa gli imponeva, la reazione furiosa dei carolingi cui l’Europa s’è consegnata: il popolo bue non sa qual è il suo bene, se la Grecia va male è colpa sua, soltanto un suo abitante su sette pagava le tasse (e non era un armatore), meritano solo di pagare che intanto loro non sganciano un euro. D’altra parte erano già caduti dalle nuvole scoprendo nel cuor dell’estate che la Grecia si era indebitata oltre il 120 del Pil, che da cinque anni soffriva di una «crescita negativa» della quale non si erano accorti i governi, la commissione, l’immensa burocrazia europea e tantomeno le banche, troppo impegnate a specularci sopra, incoraggiate alla rapacità da Stati stolidamente collusi.
Si provo vergogna per loro, per sacerdoti del liberismo, per i loro complici che hanno esautorato le nostre necessità e il nostro futuro. Ma sono ancora più affetta dall’imbarazzo nei confronti di chi continua ad aspettare il miracolo, soggiogato dalla potenza di una malintesa competenza.