foto: festivaldellegenerazioni.it
Roma - Questa intervista nasce in quasi per caso, quando la dottoressa Maria Cristina Antonucci (nella foto) - ricercatrice in Scienze sociali presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e docente di Sociologia dei fenomeni politici all'Università di Roma Tre - mi ha fatto notare un errore nell'articolo "#Celochiedeleuropa/1. Lobby e Commissione Europea: chi controlla i controllori?". Ne ho dunque approfittato per chiederle di rispondere ad alcune delle mie curiosità, aumentate con la lettura del suo libro “Rappresentanza degli interessi oggi. Il lobbying nelle istituzioni europee e italiane” edito da Carocci Editore nel 2012 su che cosa siano le lobby. Una parola che, come vedremo in questa intervista, viene usata nei media in un modo spesso inesatto.Perché un libro sul lobbying?
Rappresentanza degli interessi oggi, uscito nel 2012 è frutto di un lavoro di ricerca iniziato nel corso del mio dottorato, alcuni anni prima, e risponde ad alcune esigenze di identificazione e contestualizzazione di un fenomeno sempre meno marginale nel sistema politico italiano. In quest’ultimo contesto, vale la pena ricordare che la scienza politica italiana ha appuntato maggiormente la propria attenzione sul ruolo delle istituzioni politiche e dei partiti politici, marginalizzando - con le eccezioni di autori quali Gianfranco Pasquino, Domenico Fisichella, Luigi Graziano e Liborio Mattina - l’analisi dei gruppi di pressione in Italia e delle relative tecniche di pressione, comunicazione e influenza che costituiscono il lobbying. Inoltre, il fenomeno dei gruppi di pressione e della rappresentanza presso il sistema politico ha assunto una maggiore rilevanza in un contesto in cui i partiti politici, nelle forme assunte nella seconda repubblica declinavano, mentre le istituzioni politiche molto spesso avevano una bassa resa in quanto ad effettività dei processi decisionali.
Perché è importante parlare di lobby?
Molto più mirato ed efficace appare il metodo del lobbying adottato dai gruppi di pressione per favorire esiti decisionali specifici e rapidi, anche quando lo scopo finale è quello di esercitare poteri di veto e bloccare un processo decisionale. La crescente importanza dei gruppi di pressione nei sistemi politici non è un tratto solo italiano. Il lobbying veniva ad essere designato dall’OCSE in un Rapporto del 2007, come una delle modalità emergenti per i gruppi di pressione di intersecare il sistema politico nel contesto dei processi di globalizzazione.
Sempre più di frequente il lobbying come strumento di comunicazione, persuasione, influenza e pressione, viene impiegato in Europa da soggetti economici globali per promuovere processi decisionali collettivi favorevoli ad interessi particolari. Questo modello di lobbying di matrice anglo-americana, sulla scorta della diffusione dei modelli globali, si viene ad innestare, a partire dalla prima metà degli anni Novanta, dentro ai processi decisionali tanto europei quanto nazionali, “meticciandosi” con forme di rappresentanza degli interessi – italiane e della UE - tradizionalmente orientate verso il modello neo-corporativo. Questa pluralità di attori del lobbying, di metodi di relazione con le istituzioni, di strumenti di persuasione e tecniche di influenza emerge in maniera magmatica nel sistema politico italiano.
Si tratta, quindi, di nuovi sempre più diffusi attori della scena politica ed è importante parlare di gruppi di pressione proprio a causa della fluidità e del dinamismo con cui le lobby, in grado di attivarsi su singoli provvedimenti in modo tempestivo e spesso efficace, si inseriscono dentro ai meccanismi del sistema formalmente democratico, determinandone gli esiti decisionali.
In questo senso, parlare di lobby significa parlare di democrazia, di trasparenza e di partecipazione dei processi decisionali, di informazione pubblica sulle modalità con cui le leggi, i regolamenti, i provvedimenti frutto del potere pubblico sono assunti.
Sono molte le definizioni del lobbismo. Penso, ad esempio, a Graziano, che la definisce “persuasione del decisore pubblico” o a Pasquino, secondo il quale per lobbismo si intende la “trasmissione di messaggi da un gruppo di pressione ai decision makers”. Cosa significa, al di là degli stereotipi negativi, fare lobbying?
Fare lobbying significa essenzialmente tre cose, in senso cronologico e logico: 1.informare il decisore pubblico su uno specifico tema oggetto di procedura decisionale in modo coerente con l’interesse particolare rappresentato; 2. costruire con il soggetto decisionale un framework di comunicazione a due sensi sulla questione in oggetto, in grado di rendere espliciti tutti gli oggetti e i soggetti coinvolti nel processo decisionale; 3. persuadere il soggetto pubblico ad assumere la decisione collettiva finale in termini favorevoli all’interesse particolare di cui si è portavoce, superando in questo modo le posizioni degli altri portatori di interessi coinvolti.
Il lobbying è un’ attività costantemente in bilico tra la competenza politica e la capacità comunicativa e relazionale; essa viene svolta al meglio all’interno di un quadro di riferimento di regole uguali e valide per tutti, in grado di attribuire funzioni, ruoli e compiti tanto al lobbista quanto al decisore pubblico. Solo in un contesto giuridico regolamentato, anche sulla scorta di poche norme chiare e soggetto ad un regime di verifica dei requisiti e delle modalità di azione dei lobbisti, è possibile inserire il lobbying all’interno dei processi partecipativi del modello democratico. In assenza di ciò, il rischio maggiore è il prevalere di tecniche e strumenti di persuasione che scivolano verso gli stereotipi negativi del clientelismo, dello scambio, del rischio di corruzione, che pure sono tratti presenti in forma degenerativa nel fenomeno (basti pensare ai recenti scandali italiani, tra cui gli affaires Lavitola, Bisignani e Archinà), Tutto questo non solo non giova alla percezione pubblica del lobbista, ma nuoce, in maniera complessiva, alla fiducia che i cittadini nutrono verso l’intero sistema politico, la cui classe politica viene considerata permeabile, come notava Pasquino, agli interessi particolari e poco attenta a deliberare nell’interesse collettivo.
Nel suo libro (pag.125) lei sostiene che «l'abitudine ad agire all'interno di più arene istituzionali, nazionali, internazionali, sub-statali rende i professionisti del lobbying sempre presenti al livello decisionale più appropriato per le esigenze dei gruppi». I media, però, tendono ad occuparsi di questi professionisti solo nel caso dei c.d. “lobbisti abusivi”. Quanto una maggior presenza del lobbismo “pulito” - europeo, italiano e/o regionale – anche sui media può aiutare a smontare lo stereotipo negativo del lobbista come “il faccendiere per antonomasia”?
Vorrei ricordare che la pratica di un lobbismo corretto, anche nel settore della rappresentanza degli interessi economici, esiste anche in Italia, indipendentemente dall’assenza di un quadro normativo. La maggioranza dei professionisti del settore agisce in modo trasparente e corretto, in quanto la reputazione professionale è un asset fondamentale, direi quasi uno strumento di lavoro, per il lobbista.
Va poi notato che, in un settore non sottoposto ad alcuna legislazione nazionale, fa molto più rumore la notizia di processi decisionali pubblici influenzati da alcuni lobbisti abusivi, faccendieri oscuri e portatori di interessi occulti rispetto alla pratica professionale improntata alla trasparenza e alla comunicazione di ormai molti professionisti meno famosi. Per questo ritengo che sia giusto, come suggeriva la sua domanda, dedicare spazio, anche sui mass media, alle forme di lobbismo per cause sociali, forse ancora poco sviluppato in Italia ma con una solida tradizione europea (penso in particolare al lobbying ambientalista), e alle forme di pressione efficaci e corrette che si realizzano tanto nei sistemi politici regionali regolamentati, quanto nel sistema italiano ed europeo. Se le buone pratiche acquisiscono la notorietà di pubblico finora riservata agli scandali, sarà possibile definire un contesto più realistico e veritiero di questo settore professionale e dei suoi soggetti.
Perché, quando si parla di lobby, si pensa sempre alle grandi multinazionali capaci di influenzare il decisore pubblico e non, ad esempio, al lobbismo sociale esercitato dalle organizzazioni non governative o dalla società civile organizzata? Quanto può essere importante, ad esempio, iniziare a parlare di “gruppi di pressione” e non solo di “lobby”?
Per rispondere alla prima parte della domanda, occorre ricordare che l’idea stessa di lobbying è legata, nel mondo statunitense, alla capacità dei grandi interessi economici di organizzarsi per rappresentare le proprie posizioni ed influenzare, in senso ad essi favorevole, le scelte collettive, esercitando pressione sugli attori decisionali pubblici. E’ quindi un concetto quasi connaturato con la rilevanza decisionale di grandi gruppi economici e trust.
In realtà, secondo un’ottica più completa, descritta da Pasquino, molteplici sono le risorse a disposizione dei gruppi, prescindendo dalla disponibilità economica, per realizzare campagne di informazione, relazione istituzionale e persuasione dei decisori pubblici. Vale la pena di ricordare le competenze ed il know how in settori in cui la conoscenza costituisce un patrimonio immateriale altrettanto significativo delle risorse economiche; una appartenenza di membership consistente e socialmente ben distribuita, in grado di portare un supporto numericamente rilevante all’interesse rappresentato; il beneficio di una collocazione in posizione strategica nei processi su cui gli attori decisionali sono chiamati a deliberare. In questo senso potrei risponderle che il lobbying è un metodo, uno strumento di pressione che può essere impiegato da tutte le organizzazioni che beneficino di tali risorse e non solo di un consistente apporto economico.
In questo senso, nei sistemi democratici assume una certa rilevanza la rappresentatività sociale, dei gruppi della società civile organizzata, considerati sempre più spesso soggetti attivi nelle forme della democrazia partecipativa. E’ importante ricordare le esperienze francesi di débat public portate avanti dal modello di dialogo tra società civile organizzata, soggetti economici ed imprenditoriali e decisori pubblici a livello istituzionale sia locale che regionale e nazionale. Secondo la legge francese sul débat public del 2002, grazie ad audizioni, forme di negoziazione, mediazione e consultazione, è stato possibile assumere decisioni collettive sulla creazione di grandi infrastrutture con il coinvolgimento plurale di soggetti economici, sociali e politico-istituzionali.
In questi termini è possibile parlare di esperienze di lobbying non esclusivamente economico che si inseriscono in un contesto decisionale sempre più connotato da una pluralità di attori, da una governance multistakeholders, da un’idea di democrazia partecipativa e sussidiaria aperta ad una pluralità di contributi, e non solo alla partecipazione dei gruppi economicamente più forti.
Concordo con lei nel preferire la dicitura “gruppi di pressione” al termine lobby, sia a causa della connotazione negativa trasferita alla parola in Italiano, sia per una più ampia capacità di rappresentazione del mondo della società civile organizzata.
Lei parla di “modello neo-corporativo”, tipico del sistema italiano, e di “modello pluralista”, caratteristico del lobbismo statunitense. In cosa si differenziano?
Il modello neo-corporativo, tipico sia del sistema politico italiano quanto del sistema politico tedesco, è organizzato sulla facoltà dell’esecutivo di selezionare alcuni gruppi di pressione, rilevanti per dimensione di iscritti e relativa forza contrattuale, ed ammetterli al tavolo decisionale per concordare direzione ed esiti di alcune specifiche politiche pubbliche. Il caso tipico è la concertazione nelle politiche del lavoro, tra governo, sindacati, associazioni dei datori di lavoro. Tale modalità di accesso dei gruppi di pressione discende da una considerazione etica dello Stato, secondo cui il potere esecutivo è in qualche modo sovraordinato, in quanto rappresentante dell’interesse collettivo, ai gruppi particolari che esso ammette a partecipare al processo decisionale. Inoltre, il neo-corporativismo prevede che, a fronte di una pluralità di gruppi di pressione presenti nel sistema politico, solo alcuni siano dotati di una qualificazione particolare, riconosciuta grazie alla legittimazione governativa che li ammette ai processi concertativi. In questo modo si pongono dei limiti alla creazione e all’accesso di nuovi gruppi di pressione significativi dentro al sistema decisionale.
Il modello pluralista statunitense nasce invece dalla concezione che stato e società siano due realtà autonome senza alcuna sovra-ordinazione del primo sulla seconda. In questo senso, la società politica è libera di articolarsi in una pluralità di gruppi, ognuno dei quali, oltre ad attivarsi direttamente nel libero contesto della società, ha autonomo accesso, in una condizione di parità formale, agli attori del sistema politico per proporre il proprio interesse. In questo senso, la democrazia americana si avvantaggerebbe dalla libera competizione tra molteplici gruppi di interesse, nei confronti dei quali il potere politico è chiamato ad operare una sintesi ed una rappresentazione nel momento decisionale. Inoltre le appartenenze contestuali e contemporanee dei soggetti della società civile a più realtà associative ed organizzative impone una necessità di mediazione tra interessi divergenti che è necessariamente sociale prima ancora che politica.
Si tratta di due modelli evidentemente divergenti, frutto di culture politiche e di sistemi sociali stratificati in secoli di storia. Ognuno dei due è dotato di punti di forza, come l’autonomia e la capacità organizzativa della società civile nel modello pluralista contro il primato indiscusso dell’interesse generale accentrato nella politica nel modello neo-corporativo. Ognuno dei due presenta delle debolezze, come l’accettazione di una capacità quasi darwinistica degli interessi più forti di affermarsi nella determinazione dell’interesse generale nel pluralismo contro uno scarso livello di attivazione e organizzazione della società civile, troppo subalterna rispetto allo Stato nel neocorporativismo.
[Parte 1 di 4. Continua domani]
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