Corrado Augias insieme al suo ospite Alberto Garlini ci portano dentro l’orrore della violenza. Ci sono momenti nella vita dei popoli in cui la spinta politica genuina (con le sue paure, le sue idee, la sua voglia di cambiare) e non genuina cioè strumentalizzata sfociano in atti di violenza. A Le storie – Diario italiano si tenta di spiegare le motivazioni che spingono l’uomo al ricorso della violenza, prendendo spunto dal libro scritto dall’ospite, dal titolo: La legge dell’odio, un romanzo, nel quale convergono i desideri e i sogni di una generazione e il fallimento di quelle che l’hanno preceduta.
Partendo da fatti di cronaca esemplari firmati Casseri o Breivik, imbevuti di ideologie naziste fondate sull’odio razziale ed etnico esplosi in atti di violenza estrema, si comprende come queste storie di straordinaria follia hanno provocato la morte. Una educazione politica alla violenza che trascina in una folle fuga di desideri, di crudeltà, di sogni, di inganni, di violenza e di morte, così feroce e incalzante che le azioni si tramutano in un susseguirsi di atti e eventi immorali. L’aspirazione a una forma più alta di esistenza, il bisogno di valori più solidi, la fede in una vita ideale diventano le forze che scatenano la violenza e la morte nel’illusione della rivoluzione, in realtà, nell’asservimento tangibile a ogni potere, fino alla strage.
Una foto emblematica ci riporta al mitico ’68, gli anni della contestazione studentesca. Nel marzo di quell’anno infatti avvenne il, primo, vero scontro di piazza fra polizia e studenti contestatori, a Roma presso la facoltà di Architettura a Valle Giulia. Tutti gli studenti sono da una parte, disposti in tre ordini, in basso nel piazzale il primo, alla fine della prima rampa il secondo, e il terzo più serrato e numeroso ancora più in alto. Di fronte, le camionette della polizia schierate. Pochi sanno, che la prima fila degli studenti, era composta da fascisti che impugnano spranghe e catene. Una commistione tra rossi e neri che li hanno visti combattere insieme. Il bersaglio era lo Stato. Una posizione di scontro comune che partiva da ideologie differenti. Valle Giulia fu il segno forte di un energia che voleva dire la profonda necessità di un cambiamento.
Gli incidenti di Valle Giuli
a sono anche ricordati a causa della celeberrima poesia di Pier Paolo Pasolini dedicata ai “proletari” delle forze dell’ordine che si trovarono a scontrarsi, secondo Pasolini, con gli studenti visti come sostanziale espressione della “borghesia” giovanile, riportata alla luce della nostra memoria, proprio in questi giorni, in riferimento agli scontri in Val di Susa.La mancanza di un progetto, di un’ idea che possa ricondurre la protesta dentro i gangli dei processi di legalità e costituzionalità, agevola quanti pensano di forzare la democrazia del nostro paese attraverso la leva della violenza pubblica, di massa. Il punto cruciale è che quegli avvenimenti iniziati nel ’68 e culminati con il tema sacrificale dell’omicidio di Aldo Moro passano attraverso la strage di Bologna e Piazza Fontana. Lo stupore dell’inizio, quando il malessere si fece energia e divenne violenza. Una violenza che prende spunto da atti politici. Scontri corpo a corpo, auto in fiamme, lacrimogeni, manganelli, ambulanze. Il nemico non era né l’università né lo Stato, ma l’ordine del linguaggio, degli affetti e dei giudizi. La rabbia dell’ingiustizia che sfociano nella voglia di cambiamento, il comunismo la incanalava nella lotta di classe e nella protesta collettiva, la religione nel riscatto salvifico del paradiso, alla base di netrambe la convinzione, l’esistenza di un progetto politico che motiva la protesta.
Fatti che scuotono le menti e che ci riportano bruscamente alla cronaca. L’attuale ingiustizia non ha più punti di riferimento, non si tende più alla rivoluzione con sfondo politico oggi,
la sommossa ha preso il sopravvento. Una reazione senza orizzonte, senza una concezione di vita, e l’azione priva di pensiero diventa pericolosa. La rabbia non filtrata dalla politica diventa violenza pura e semplice. I motivi della protesta passano in secondo piano, nessuno ne ricorda uno, mentre le immagini delle devastazioni rimangono per mesi scolpite nell’immaginario collettivo. Della politica non si può fare a meno, troppo spesso la nostra società civile scende in piazza e si avvale di patenti di moralità che forse in fondo non possiede. Quando la prima Repubblica fu seppellita dagli scandali delle tangenti, quello che venne fuori fu il ventennio di Berlusconi e anche li la società civile si impegnò, si mobilitò, gridò in piazza, lanciò monetine, e mostrò cappi in parlamento poi, sappiamo tutti come è finita.Ecco perché i Casseri o Breivik pensavano di agire politicamente in realtà davano sfogo alla propria rabbia di pancia. Ecco perché abbiamo di fronte due strade, o cercare di istituzionalizzare le rimostranze della piazza, cercare di rendere umano il disumano che investe le nostre vite ogni giorno, oppure portare in piazza il doppio di blindati e poliziotti e cercare di distruggere la protesta, violenza contro violenza.
La morale è che quando arriva il contagio della violenza dobbiamo annichilire e sentirla come uno schiaffo, una ferita dell’animo, perché la violenza va svuotata dal suo interno, va curata con pratiche di unione sociale, creando consenso attorno agli strumenti della democrazia o rischiamo una leggera ma inesorabile regressione umana. La violenza impedisce ogni crescita morale e civile.