“Il pub era in un vecchio edificio, a un centinaio di metri. La sala da biliardo al piano di sopra aveva le tipiche finestre che nel periodo vittoriano passavano per ‘medioevali’; quelle del pianoterra invece erano decorate da pubblicità della birra. La nebbia mi faceva dolere la mia vecchia cicatrice al braccio, dove mi avevano sparato, così spinsi la porta con l’altra spalle ed entrai. Firth era un pezzo d’uomo, ma a parte questo non dava l’impressione di aver avuto molto successo nella vita; comunque sembrava uno che non si fosse mai rivolto a un medico, tanto meno a un sarto, né che ci fosse mai arrivato vicino. Indossava un soprabito grigio con delle bruciature di sigaro sul petto, e sedeva con la pancia prominente a un tavolino d’angolo, davanti a un bicchiere vuoto”.(1)
Londra, anni ’90. L’ex sbirro Firth, insospettito dallo strano comportamento di un vicino di casa, ha deciso di svolgere alcune indagini; così si è convinto che l’uomo, tale Henry Cross, sia un serial killer.
Ma per accusarlo i sospetti non bastano, servono le prove, e per aprire un’indagine ufficiale c’è bisogno di vittime: fortunatamente, l’anonimo sergente dell’A14, sezione delitti irrisolti della “Factory”, come al solito dalla parte delle vittime -in questo caso persino delle vittime “potenziali”-, è pronto a dare ascolto all’istinto del vecchio amico, e mettersi a indagare senza l’appoggio dei diretti superiori…
Quinto romanzo del ciclo della “Factory”, Il museo dell’inferno segna la fine di un determinato modo di raccontare: dopo le brutture affrontate in Il mio nome era Dora Suarez, protagonista e autore non sono più gli stessi; il limite ultimo dell’orrore è stato toccato, e, per non cadere nella sterile ripetizione(2), non si può far altro che affidare la narrazione alla voce stessa dell’assassino: questo succede nel Museo dell’inferno.
L’esemplare linearità anti-poliziesca di Aprile è il più crudele dei mesi -segno inequivocabile che il noir, quello vero, non ha niente a che vedere con l’“intrattenimento”; che in quanto letteratura morale non deve preoccuparsi di intrattenere, e che se intrattiene lo fa solo collateralmente- è portata all’estremo: se in Aprile è il più crudele dei mesi, il confronto iniziale tra investigatore e assassino è frutto di una semplice (per quanto radicale) prolessi, qui, al momento della dichiarazione del colpevole, non è ancora stato commesso alcun reato di competenza della Factory, o almeno così pare.
Senza bisogno di ricorrere a stratagemmi fantascientifici, l’autore pone il suo protagonista di fronte alla possibilità di sventare un crimine futuro, e lui, il sergente -uomo dal passato difficile e pertanto profondamente empatico; tormentato moralizzatore e malato della più sana e auspicabile forma di “ipertrofia della persona” (per dirla con Jung)- non può che cogliere l’occasione e lanciarsi in un’indagine supportata da azioni non ingiustificate, ma decisamente illegali(3).
Poi, l’inchiesta, tempestiva, ma non abbastanza da evitare lo spargimento di sangue, giunge al termine, e imprevedibilmente il romanzo continua. Il punto di vista cambia; la parola va all’assassino.
E se, come l’autore, anche lui non può e non potrà mai spiegare l’orrore, può pur sempre rievocarlo. In questa direzione, si muove Raymond, affidandosi alla voce perfetta(4) di un uomo che dichiara di aver sempre voluto “tagliare la gola al passato”, e di aver sempre costretto il tempo a “offrirglisi in sacrificio, con una riserva inesauribile di agnelli pasquali”; un uomo che sa che “l’inferno è assoluto, e in quanto tale invivibile” e che noi “non siamo fatti per viverci: per viverci bisogna essere morti”; che l’“unico modo per scampare all’inferno, è diventarlo” e che “l’unica cura per l’assoluto è diventare assoluti” e che neanche così si è al sicuro(5); un uomo, insomma, che, pur evocando, per migliorare la proprio posizione agli occhi del sergente, tutta la serie degli attenuanti generici (tutti quelli tradizionalmente concessi dalla fiction ai criminali della sua categoria, dall’infanzia difficile ai problemi -rigorosamente negati- con l’altro sesso, e così via fino a reclamare, in un ultimo, ovvio rifugio, l’equivalenza tra cacciatore e preda, tra poliziotto e criminale, e quindi, per estensione e in maniera assolutamente inconscia, anche tra assassino e vittima), è diventato l’inferno, all’inferno è sopravvissuto, ed è quindi in grado di raccontarlo. E così il passo avanti per lasciarsi alle spalle Il mio nome era Dora Suarez è compiuto.
Ma è un passo definitivo, uno movimento senza ritorno: tanto è vero che, nell’ultimo capitolo delle avventure della Factory, Quando cala la nebbia rossa, uscito postumo nel 1994, la narrazione è affidata, fin dal principio, al punto di vista di un criminale…
Il museo dell’inferno, di Derek Raymond, è proposto ai lettori italiani da Meridiano Zero.
(1)Derek Raymond, Il museo dell’inferno, Meridiano Zero, Padova 2002, p. 31. Traduzione di Alberto Pezzotta.
(2)Chi non lo conosce mi creda sulla parola: Raymond non era tipo da ripetersi.
(3)Tale, per esempio, l’irruzione nell’appartamento di Henry Cross, che porta alla scoperta del “museo”; d’altra parte, in questo il sergente risponde all’archetipo del detective-moralista tipico dell’hard boiled, che sente la distanza -e talvolta persino l’opposizione- tra legalità e giustizia, sceglie la giustizia e agisce di conseguenza…
(4)Gli appunti e le dichiarazioni sparse che occupano l’ultima parte del romanzo sono perfette non solo da un punto di vista tematico, ma anche e sopratutto da un punto di vista stilistico: sembra di sentirlo davvero, il killer, con tutta la sua pochezza, le sue contraddizioni, i futili pretesti, le frasi altisonanti e i cupi deliri di onnipotenza.
(5)Cfr. Ivi, p. 165, apice poetico e immorale del discorso del serial killer.