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Derek Raymond: Stanze Nascoste

Creato il 03 marzo 2011 da Fabriziofb

Derek Raymond: Stanze NascosteIl noir nasce quando il genere umano è spinto alla follia in un bar o nell’oscurità, descrive uomini e donne che la sorte ha spinto troppo in là, la cui vita si è contorta e deformata. Il noir affronta il problema di trasformare un piccolo, timoroso scontro con se stessi in una lotta molto più grande […] screditata la religione, il noir è una sorta di rinnovato sforzo per colmare il vuoto descrivendo apertamente ciò che fa male alle persone, e questo è il motivo per cui non voglio che si confonda con la parte commerciale dell’industria editoriale, né con le effusioni sentimentali di tardone che non perdono di vista l’andamento delle vendite. Il noir non ha nulla a che fare con questo. Il suo scopo è portare le persone in mezzo alla tempesta di fango che c’è appena fuori dalla porta di casa, dove tutto e tutti vengono martellati da una pioggia insistente che proviene dalle anime sulla strada. Il noir esiste per far vedere agli uomini cos’è la vera disperazione: le piccole, buie stanze dell’esistenza dove ogni uscita è sbarrata.”(1)

Ci sono autori dei quali si dice che rispecchino perfettamente il loro tempo, nel senso che si inseriscono pacificamente nella storia della produzione letteraria di un dato paese e periodo, di una determinata corrente o genere; ce ne sono altri dei quali si dice lo stesso intendendo, invece, che in virtù di una lucida, lucidissima, visione del mondo e delle cose, sono riusciti a raccontare il “loro tempo” (e le sue contraddizioni) meglio dei loro contemporanei.
In questa seconda categoria ricade, fuori da ogni discussione, Derek Raymond, al secolo William Arthur Cook.

Raymond è venuto al mondo il 12 giugno 1931 al numero 8 di Montague Place, rampollo di una facoltosa famiglia di industriali del ramo tessile (borghesi “arricchiti”, come farà presto notare al padre, con giovanile, crudele lucidità, e malcelato disprezzo), e morto a Londra nel 1994, a due passi dalla casa paterna, ma lontanissimo dalla posizione politica, economica, e sociale alla quale pareva destinato per nascita. Segno che la sua tormentata vicenda umana ha avuto l’esito sperato: liberarlo dagli odiati cliché della sua classe sociale, allontanarlo dalle regole e le convenzioni dell’alta borghesia londinese.
Proprio questa tormentata vicenda umana, Raymond tenta di ripercorrere in Stanze nascoste(Hidden Files, 1992), proposto oggi, per la prima volta, ai lettori italiani.
E riletta con l’immane sforzo di conferire un senso unitario (se non si trattasse qui, proprio di Raymond, ci si spingerebbe, forse, fino a dire una “teleologia”) ad un insieme di avvenimenti che ricadono, invece nel piano del puro accadere, la biografia di Raymond assume un indiscutibile valore culturale: sì, perché, oltre a ripercorrere le tappe della sua infinita formazione (2), guidata solo dall’aspirazione alla libertà, e dalla compassione (intesa nel senso etimologico di “soffrire-con”, e non in quello falsamente cristiano e borghese di “provare pietà per”), a farlo con tutte le cautele del caso(3), con una minima quantità di raccordi di maniera(4) e con un numero ridotto di auto-citazioni (5), Raymond affronta qui, vis à vis, tutte quelle questioni teoriche relative al noir, che hanno prodotto i tratti più rivoluzionari della sua narrativa.
Così ci troviamo a leggere, per esempio, che “non è la lingua ad essere morta, ma la gente che la usa. O meglio quando la lingua scritta non somiglia a quella parlata, allora muore sulla pagina. C’è qualcosa che non funziona: non si può scrivere in una lingua che non si può parlare.” (p. 67); e ancora che se il noir fin ora “non ha funzionato” è “perché è stato affrontato da gente che tentava di scrivere cose orribili senza averle vissute” (p. 123)(6); che “la metafisica”, persino quella “fatta in casa” è “molto importante nella scrittura – anzi, imprescindibile” (p 71); che “indagare la realtà nel modo più profondo e completo possibile” è il vero compito della letteratura; che è inconcepibile che “uno scrittore” non sia mai stato “tormentato dal fantasma di una morte violenta”, che non abbia mai “provato su di se’ l’angoscia della disperazione assoluta” (p. 100) e che “Il noir è un mezzo che distrugge il male definendolo, e mostrando tutto ciò che di negativo esiste nella nostra società” (p. 141).
E le citazioni potrebbero andare avanti ancora a lungo: nelle 330 pagine che compongono la sua biografia, Raymond dimostra -senza mai assumere spiacevoli toni cattedratici e preoccupandosi di far scaturire le sue brillanti intuizioni (espresse in forma quasi aforistica) dal flusso stesso della narrazione- una capacità di sintesi folgorante.
Ma trasformare questa recensione in una raccolta di aforismi non avrebbe senso; basti al lettore sapere che, tra uno spostamento e l’altro, e tra un aneddoto e l’altro, l’autore, come un novello Chandler alle prese con la sua stesura di The simple art of Murder riesce ad affrontare temi “caldi” quali la genealogia del noir e i rapporti con il giallo classico (7); a interrogarsi sul senso della letteratura (8), sui motivi del successo di alcuni generi di intrattenimento, e sulla scarsa diffusione di altri (il “vero” noir)(9); a condurre una personale crociata contro i boriosi (pp. 144-145)(10), ad addentrarsi nella teoria analizzando le differenze psicologiche tra i suoi personaggi principali (il sergente della serie della Factory e il Kleber di Incubo di strada; p. 151-152) ecc., senza mai annoiare, e conciliando un altissimo livello di riflessione con una chiarezza sbalorditiva.

E se quanto detto fin qui non è sufficiente per darvi l’idea di quanto un testo così lungamente atteso possa essere essenziale per la comprensione dello stato attuale del noir e per affrontare, tutte in una volta, questioni “disperse” che richiederebbero l’attenta lettura di numerosi altri autori; sì, insomma, se siete ancora inchiodati davanti al monitor, e non vi passa nemmeno per la testa l’idea di fiondarvi in libreria, be’, tanto vale che cambiate genere e torniate alle “effusioni sentimentali di tardone che non perdono di vista l’andamento delle vendite” di cui sopra…

Stanze nascoste, di Derek Raymond, è edito in Italia da Meridiano Zero.

(1)Derek Raymond, Stanze Nascoste, Meridiano Zero, Padova 2011, p. 99. Traduzione di Federica Alba e Pamela Cologna.
(2) Tappe che vanno dall’infanzia londinese fino alla maturità, passando attraverso i primi confronti con l’”altro” e con le donne, attraverso la scoperta della scrittura e la fuga dall’odiata Eton, l’incontro (letterario) con Sartre e il prematuro sogno di trasferirsi a Parigi, le avventure notturne come tassista (a bordo di un’arrugginita Alfasud, o di una scassatissima Citroen Club 12-50), l’impiego come venditore di biancheria intima femminile nel negozio di famiglia in New Street Square a Neath, i tentativi di suicidio, i problemi con la bottiglia, la vita nella Spagna franchista, l’evocazione di tutta una serie di fantasmi (vittime di guerra, o semplicemente dell’esistenza) ecc.
(3) Un po’ perché pur sapendo che “quello che distingue uno scrittore è l’ossessione di mettere su carta il risultato della propria vita – e di quella degli altri” (p. 10), è perfettamente conscio dell’impossibilità del compito (impossibile perché, come si legge a p. 19: “la vita può essere nota solo in parte a chi la vive”); un po’ perché teme che il suo istinto da narratore possa prendergli la mano, distorcendo la realtà dei fatti.
(4) Si veda per esempio il rivelatore “No, in certi momenti questa autobiografia mi infastidisce, è troppo difficile. Ma se fosse facile non sarebbe interessante” (p. 75), una via di mezzo tra un passaggio retorico e un sentito -ma innecessario- tentativo di giustificazione di fronte al lettore.
(5)Sufficienti a saziare la fame di dettagli dei fan più sfegatati, ma fortunatamente abbastanza contenute da non tediare i lettori non informati sui fatti.
(6)E su questo, Raymond, che aveava scelto la strada perché solo così poteva ricevere “l’unica formazione possibile per il noir” (p. 179) ha tutto il diritto di pronunciarsi…
(7)“Mi sarebbe piaciuto dare una copia di Dieci piccoli indiani […] a Shakespeare, senza dubbio il più grande scrittore di noir, e guardare la sua espressione non appena avesse cominciato a leggere” (p. 134)
(8)“Dopotutto, perché si scrivono libri? Si è fatta strada la condizione errata che sia per raccontare una storia, mentre chiunque abbia letto la vera letteratura sa perfettamente che è per raccontare la verità [...] il noir esiste per additare gli orrori del presente”. (p. 135).
(9) Il vero noir risulta osteggiato dal sistema editoriale, perché “il ruolo degli editori, come quello dei governi, è ritardare, mai accelerare, tutto ciò che sa di cambiamento.” (p. 135)
(10) Questi brani riconquistano la fiducia dei lettori più sospettosi, riequilibrando alcune pungenti affermazioni relative ai giovani scrittori ecc.


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