Di sicuro, molti di voi avranno letto o sentito di quello che sta accadendo in Friuli: l'ennesima multinazionale ha dato il via all'ennesimo piano di ristrutturazione, che porterà, per l'ennesima volta, alla solita mattanza di lavoratori (cassa integrazione, licenziamenti e via andare).
La novità, stavolta. starebbe nella proposta presentata ai sindacati. Secondo quanto riferito ai giornalisti, dai rappresentanti dei lavoratori, l'azienda avrebbe lanciato un ultimatum: o i dipendenti si riducono lo stipendio al livello dei colleghi polacchi (circa 800 € al mese) o gli stabilimenti chiudono. Provocazione? Esagerazione? Bufala? La dirigenza ha seccamente smentito, affermando che la riduzione di stipendio ammonta, invece, ad appena 3 € l'ora (circa 130 € al mese), in modo da poter mantenere l'occupazione e, allo stesso tempo, il livello di produttività degli stabilimenti italiani. Nessuna cura polacca in arrivo, quindi.
Vero o no che sia, resta il fatto innegabile: non è la prima azienda che cerca di scappare verso il più economico Est europeo e, data la situazione italiana, non sarà certo l'ultima. Da troppo tempo, ormai, l'Italia non è un Paese per l'industria, un declino inesorabile, testimoniato dalla perdita del 15% della nostra capacità produttiva, mai così in difficoltà: stiamo andando verso la desertificazione industriale.
Non è stato un processo repentino, però, ma lungo anni, durante i quali la nostra classe dirigente, colpevolmente, non ha fatto assolutamente niente, presa com'era dalle sue beghe interne e dai suoi interessi. Servivano e servono tutto'ora, politiche industriali che colmino il gap che abbiamo con altri Paesi, dal punto di vista produttivo, energetico e tecnologico, invece si sceglie la via più facile: un incentivo qui, uno sconto sull'energia qua, un taglio ai salari là e il problema è rimandato a data da destinarsi. Ma rinviare non vuol dire risolvere, anzi.
L'Electrolux ne è un caso esemplare: nessuno, nei palazzi del potere, ha fatto minimamente caso al declino economico del Paese e alla crescita parallela di nazioni (un tempo) povere, come la Polonia ad esempio, oggi mecca delle aziende in cerca di manodopera a basso costo, tasse basse e burocrazia snella.
Così come nessuno, nella classe dirigente, ha mai prestato attenzione al fatto che il nostro Paese ha un sistema industriale debole, poco propenso all'innovazione tecnologica e specializzato in settori fortemente concorrenziali, come ad esempio, quello manifatturiero-tessile. Oh certo, la moda italiana è uno dei nostri vanti e il suo livello qualitativo non ha eguali, ma è proprio qui il problema: trovandoci ad affrontare concorrenti, come la Cina o l'India, con cui non possiamo competere numericamente, abbiamo puntato sulla qualità dei nostri prodotti, cosa che, però, non si traduce in un grande ritorno occupazionale.
Ecco, quindi, il punto: non basta cercare di essere i migliori in un campo, occorre diversificare, puntare su settori innovativi e remunerativi, sia dal punto di vista economico che occupazionale. Un esempio su tutti: l'energia. Dopo i referendum sulla rinuncia al nucleare, cosa è successo? Niente, assolutamente niente: nessun piano B, nessun tentativo di seguire strade alternative (le rinnovabili), nessun piano energetico a lunga scadenza, nessun investimento nella ricerca ed ecco, quindi, che il nostro portafogli è vittima, come e più di altri, dei capricci del prezzo del petrolio.
Ed allo stesso tempo, nessuno si è mai preoccupato di fare qualcosa per risolvere il problema del nanismo dell'industria italiana. Da sempre, la piccola e media impresa è la nostra ossatura, ma i tempi cambiano: in un mondo globalizzato, la piccola azienda familiare non ha più i mezzi per riuscire ad emergere, schiacciata non solo dalla concorrenza e dalla crisi, ma anche dalla mostruosa pressione fiscale cui lo Stato la costringe. Sarebbe stato necessario, già anni fa, favorire un processo di crescita e di aggregazione delle PMI, allo scopo di permettere loro di acquisire la forza sufficiente per poter giocare al tavolo del mercato globale e invece, non si è mosso un dito e i fallimenti a catena ne sono la conseguenza.
La politica, insomma, è in ritardo di anni, cosa che ha provocato l'attuale malessere italiano: stipendi bassi, tasse alte, produttività a picco, disoccupazione in crescita. Siamo in declino, ma chi può e deve intervenire non sembra preoccuparsene.
Danilo