"Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso".
Hannah Arendt
(La banalità del male)
Desirè, Sarah e Yara: tre storie sulla banalità del male, tre storie che interrogano una comunità, che la mettono in crisi e che le fanno urlare, come ha scritto domenica il direttore Ettore Ongis sull'Eco di Bergamo: "Caino cosa hai fatto?".
Desirè Piovanelli aveva 14 anni abitava a Leno (Brescia) e fu uccisa nell'ottobre 2002. Era scomparsa come Yara un sabato sera: aveva detto che sarebbe andata da un amica ma dall'amica non ci arrivò ma. Si era fermata in una cascina diroccata poco lontano da casa dove una settimana dopo (nonostante, anche qui, le ricerche con i cani) fu rinvenuto il corpo massacrato a coltellate. La scomparsa sembrava una fuga adolescenziale, ma l'intuito dei carabinieri, che non hanno mai creduto ad un sms in cui la ragazza diceva di stare bene, hanno stretto il cerchio attorno a chi quel messaggio l'aveva mandato, sfruttando una scheda telefonica rimediata in vacanza. L'intuizione investigativa portò all'arresto di un 16enne che confessò e condusse gli inquirenti là dove era nascosto il corpo. Nei giorni successivi altri due ragazzi poco più giovani finirono in manette. I tre amici della vittima avevano attirato Desirè nella cascina, pretendevano da lei attenzioni sessuali, ma al suo rifiuto arrivarono le coltellate: uno infieriva, gli altri la tenevano ferma, nessuno era stato capace di fermarsi in tempo. Nella penombra di quella cascina, accertarono le indagini, anche un 36enne padre di famiglia, quasi a far da garante a quella mostruosità.
Seguii per lavoro le indagini sulla morte di Desirè, vidi in faccia due dei tre ragazzi pochi istanti prima del loro arresto, erano ragazzi come tanti, i brufoli, la barba che sembrava ovatta sul mento, l'incoscienza dipinta sui volti. Volti banali, se vogliamo, come banale doveva essere apparsa loro l'atrocità che stavano commettendo.
Di Sarah Scazzi da Avetrana, della sua scomparsa e del suo drammatico ritrovamento, sono ancora pieni i giornali e le cronache tv. Qui è la famiglia, con le sue gelosie, le sue coperture, le sue rivalse, ad aver fatto scempio di quel corpo. Una famiglia banale, verrebbe da dire, come banale deve essere apparsa la vendetta che si stava consumando su quella bimba dai capelli biondi.
E Yara Gambirasio da Brembate Sopra? Le indagini, se ci riusciranno, ci racconteranno quello che è successo. Ma anche qui la comunità si sente fragile: teme l'ennesima banalità del male, l'ennesima atrocità commessa dalle persone normali. Gente che forse ha ritenuto banale l'epilogo riservato a Yara, banale la sua disperata autodifesa, banale quel rifiuto che, forse, sta alla base di una reazione tanto spietata.
La comunità aspetta quasi con impotenza l'ennesima banalità del male disvelata da un'inchiesta, confessata in una caserma o in un commissariato. Aspetta di conoscere il volto di Caino, con il dubbio che possa essere il volto banale di qualcuno che da sempre incontra per stada. Si indigna e si dispera cercando di coprire così la sua impotenza, i suoi limiti, la sua incapacità di governare le frustrazioni dei singoli, di educare la capacità di convivere di tutii. Che fare? Don Corinno Scotti, il parroco di Brembate, se lo chiede da quando Yara è scomparsa e oggi ha affidato un messaggio a Marco Imarisio, giornalista del Corriere della Sera, che lo ha intervistato tra i banchi della Parrocchiale: "Mi saluti i suoi figli, gli porti un saluto da un nonno-prete. E gli imsegni a non cedere mai all'idea di un mondo senza speranza. La speranza esiste, senza speranza non siamo niente". E la speranza - parafrasando Hannah Arendt - non è mai banale come il volto dei carnefici.