Magazine Diario personale

Destrista, squadrista e dall'aspetto fascista.

Da Bibolotty

Destrista, squadrista e dall'aspetto fascista. Devo raccontarlo a qualcuno. Le amiche sono pettegole e gli ex, gelosi, tu, pur sapendo che ti farai grasse risate, so che terrai la cosa per te. Ti conosco abbastanza per essere certa che non ti scandalizzerai, un po’ perché mi conosci e un po’ perché è roba che si pratica da sempre, una consuetudine e una moda. Un “affaire” poco pubblicizzato dalle figlie della società bene di certe cittadine di provincia ma assai praticato. Giravano tante voci anche da noi sulle ville fuori città che nutriti gruppi di studentesse appena maggiorenni affittavano come pied à terre. Ma sì che lo ricordi, erano i primi anni ottanta e uscirono lunghi articoli di cronaca che ravvivarono per un bel po’ i salotti della media e alta borghesia del sud. La figlia di quello, la nipote di quell’altro, la moglie di Caio, la sorella di Sempronio. Non si parlò d’altro per almeno un paio d’anni.
Io che ero ancora una ragazzina fui colpita da quella storia e dalla pubblica opinione che si scandalizzava e andava in estasi: se lo fai per bisogno, puoi, se lo fai per piacere, no. Mi sembrava un’ingiustizia segnare a dito ragazze solo più belle della media e più spregiudicate. Si fa ma non si dice. La regola è questa ancora oggi. Comunque sì, non si può morire di rimpianti.
Lo frequentavo solo on line e da appena un paio di mesi. Uno di quei tizi piuttosto in vista, pubblicamente di centro ma di nascita e indole destrista, squadrista e dall’aspetto fascista. Non fare quella faccia. Sono rimasta la fricchettona che frequentava le sedi di democrazia proletaria. Figurati che ho anche una borsa “vera Tolfa” nell’armadio, mi conosci, non c’è problema, dammi pure della nostalgica, scelgo la nostalgia alla rassegnazione. Ma volevo un fascista, sì uno di razza. E sai dove sarebbe stato perfetto?, in “portiere di notte”, in divisa da nazi e con lo sguardo crudele, chiuso però in un universo pieno di sensibilità: l’altra faccia della medaglia, quella che più amo, quella nascosta. Non uno di quelli che consumano voracemente il pasto, e non che l’avessi mai visto mangiare, no, ma sapevo che era un riflessivo, cauto, indifferente, almeno in apparenza, a troppe delle mie battute sarcastiche.
Sfuggiva, ridacchiava, e anche se non potevo vederlo lo immaginavo nella sua casa confortevole con vista sui tetti di Roma, scorrere i miei racconti e passarsi le dita sulle labbra forti, trascorrere un po’ di tempo sul mio profilo e guardare le mie foto domandandosi quale fosse il sapore della mia pelle e la consistenza della mia bocca. Sì, certo, mi aveva chiesto delle foto, le solite, quelle che prima o poi tutti domandano. E io per scherzo gli avevo risposto di no, e che se proprio le voleva avrebbe dovuto pagarmi. Da buon affarista mi ha proposto di vederci direttamente in albergo, al più presto, in un cinque stelle raffinato in pieno centro, ore 14:00 e possibilmente di mercoledì.
Avrei deciso io il giorno esatto e avrei fatto io il prezzo. Comunque, da quella proposta imprevista, si è messo di nuovo al buio e in disparte. Un uomo in grado di aspettare è già degno di fiducia. E poi siamo persone adulte, solo i ragazzini continuano a giocare a carte scoperte.
Il fatto che mi avesse comprata a scatola chiusa di per sé mi faceva già un certo effetto e dopo molte notti in bianco, fissate anch’io le mie regole, o meglio il mio limite, mi sono data anche un prezzo, alto, e gli ho comunicato la data. Dalla sua casella aziendale è arrivato un “sì” seguito dal suo nome e cognome per intero, doppio, altisonante e noto e l’elenco particolareggiato di cose da fare –dal colore dello smalto alla depilazione- e dei negozi dove andare a provare abiti e le scarpe che voleva vedermi indosso. Anche l’intimo, niente affatto dozzinale, mi fu mostrato non senza sguardi complici da una ragazzetta servile ed educata di un negozio piuttosto chic. L’abito, semplice, nero e senza maniche, aveva di particolare una sottile cinta di ferro con incastonate pietre dure di diversi colori. Anche il cappotto era perfetto, una meraviglia vintage dell’esercito della salvezza, stretto in vita, caldissimo, e con quel che di marziale che, come avevo intuito, lo eccitava da morire.
Sarei dovuta arrivare per prima e accoglierlo come si doveva. Così, il portiere non mi ha domandato il documento, mi ha porto la chiave e indicato l’ascensore e il ragazzo che mi avrebbe accompagnata all’ultimo piano. Fuori pioveva. Ho pensato che probabilmente aveva domandato la camera più lontana da orecchie indiscrete. Ho pensato anche che a sua disposizione soltanto due ore. Nello specchio dell’ascensore ben illuminato mi sono trovata all’altezza della cifra e della follia in cui mi stavo imbarcando.
Una volta chiusa la porta della stanza centoventitré le sue mani mi hanno afferrata con forza. L’avevo intuito esattamente così: un baro e un perfetto imbroglione. Le regole, per quella cifra, poteva ben permettersi di cambiarle a suo piacere. Le mani, non troppo grandi, le usava saggiamente dando e togliendo al momento giusto, senza affanno e senza mai un dubbio. La voce, un po’ acuta, dava ordini esatti che eseguivo senza repliche né domande. I premi, per le richieste che accontentavo con sorrisi pieni di gratitudine, erano ogni volta generosi. Era pieno di attenzioni, quasi servile e mai arrogante, gentile ma con un’espressione severa e triste.
Allo scadere delle due ore ha tirato fuori la mazzetta dei contanti, voleva raddoppiare e avermi tutta la notte. Non avevo bisogno di soldi, solo, per una volta, mi sono fatta pagare a caro prezzo da un fascista. 


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