Lo ribadivo qualche giorno fa in una discussione pubblica sul web: detesto il termine “tolleranza”. Lo detesto come tutte le parole abusate di cui si è smarrito il significato autentico. Si “tollera” ciò che di per sé è considerato riprovevole ma ineludibile. In questo senso, la voce tolleranza diventa un vocabolo che serve a mascherare un’insofferenza di fondo contro qualcuno o qualcosa. Insomma, un contraffazione del più becero razzismo. Oggi, nel linguaggio sociologico e religioso, è passata invece l’idea che tollerare significhi possedere la capacità individuale e collettiva di coesistere pacificamente con persone singole o gruppi sociali che vivono e si comportano in maniera diversa dalla propria. Insomma, siamo di fronte a uno di quei travisamenti linguistici di cui abbonda il lessico italiano contemporaneo. Sul concetto di tolleranza, già a partire dal Cinquecento, si è ampiamente dibattuto nei secoli passati. La graduale accettazione di una pluralità di opinioni in campo etico, politico e morale ha condotto questo termine a proporsi come baluardo del diritto alla libertà d’opinione. Nulla da eccepire da un punto di vista filosofico. Il problema si pone sul piano sociale e in tempi strettamente recenti. Tollerare oggi significa né più né meno che sopportare. E la sopportazione, si sa, porta con sé forme inevitabili di logoramento. Altra cosa è invece quella che Karl Popper individuava come “valorizzazione della reciprocità” che include la possibilità della critica e del confronto in nome del progresso sociale, scientifico e civile. Sulla perdita di significato, sullo spostamento di senso, sul disperdersi delle parole, ha scritto recentemente, e molto meglio di me, Gianrico Carofiglio nel suo La manomissione delle parole (Rizzoli). Carofiglio ci ricorda che nel secolo scorso già Orwell mostrava nei suoi scritti come “combattere contro il cattivo linguaggio significhi, anche, opporsi al declino della civiltà”.
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