«Per rimanere liberi bisogna, a un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione». Così disse Giovannino Guareschi, nel maggio 1954, mentre faceva il suo ingresso nel carcere di San Francesco a Parma. Finì in galera per effetto della sentenza del Tribunale di Milano, al termine di un processo che lo aveva contrapposto ad Alcide De Gasperi.
Guareschi rinunciò a ricorrere in appello contro questa che era soltanto una sentenza di primo grado. Non perché si riconoscesse colpevole delle accuse rivoltegli dal leader democristiano, ma perché appunto “a un bel momento” bisogna fare una scelta precisa per difendere la verità. E se la verità conduce in prigione, bisogna avere anche il coraggio di prendere la via della prigione.
Quando – ormai tanti anni fa – qualcuno mi parlò di Aleksandr Solženicyn, questo scrittore era ancora poco noto in Italia. Sebbene avesse vinto il Nobel già da qualche anno, della sua opera da noi ancora non era stato tradotto nulla, a parte – credo – Divisione Cancro. Non era noto nemmeno l’Arcipelago Gulag che, del resto, anche dopo la traduzione italiana rimase scandalosamente ignorato, per quell’ossequio che in Italia si doveva alla permalosa cultura dominante della sinistra, di finti proletari che spudoratamente nascondevano le loro ricchezze nelle tasche interne dell’eskimo.
In quella occasione, manifestai al mio interlocutore le mie perplessità: come pensava uno scrittore di poter mettere in crisi il granitico potere sovietico, semplicemente con la forza delle parole? A questo proposito, pochi anni dopo, lo scrittore russo pubblicò un altro libro con illuminanti riflessioni sulla letteratura, libro con un titolo che in Italia è stato tradotto La quercia e il vitello, ma si tratta di una traduzione imprecisa, dal momento che nel titolo originale Solženicyn credo avesse voluto richiamare un proverbio russo che recita più o meno così: “I vitelli prendono a cornate le querce” – l’espressione si riferisce al fatto che i vitelli, quando sentono spuntare le corna, vanno a grattare la testa contro un tronco di quercia, probabilmente per lenire quella fastidiosa sensazione.
Con questo, lo scrittore russo voleva evidentemente richiamare un fatto: che la verità tende a “impattare” la mentalità dominante, il potere culturale, il “mainstream”. Ma che speranza avrebbe uno scrittore di far prevalere la flebile voce della verità sulla forza del potere culturale che, per essere tale, dovrebbe essere inattaccabile? La risposta sarebbe questa: la menzogna, per essere tutelata, ha bisogno di un apparato di potere solido e sempre più articolato, alla verità invece è sufficiente che un solo uomo dica la verità. Col tempo, questa verità riuscirà a sgretolare le mura granitiche del potere. Guardando alla recente storia russa, bisogna riconoscere che Solženicyn ha avuto ragione. È sufficiente, dunque, che un uomo dica la verità; non è necessario che abbia anche la forza sufficiente per far trionfare la verità. La verità, infatti, ha una forza intrinseca ed è capace di imporsi da sé.
Mi capitò, sempre in quegli anni, di incontrare personalmente uno scrittore dissidente di un paese dell’Est europeo. Essendo io giovane, ingenuamente feci una domanda inopportuna. Gli chiesi di indicarmi il nome di altri scrittori dissidenti, attivi nei Paesi dell’Est e oppressi dal potere comunista. Io desideravo sinceramente conoscere questa letteratura che era, come ho detto, poco conosciuta in Italia. Ma il dissidente si irrigidì, temendo evidentemente che io fossi un provocatore o addirittura una spia comunista. Mi diede perciò una risposta con la quale voleva più che altro mandarmi al diavolo. Mi disse: “pensi ai dissidenti che avete voi in Italia”.
La risposta mi offese nella mia sensibilità giovanile. Non rendendomi conto di aver messo in difficoltà il dissidente con la mia domanda, borbottai qualcosa; mi sembra: “non abbiamo dissidenti qui in Italia”. Volevo spiegare che da noi non c’era un potere che opprimeva gli scrittori come nei paesi comunisti, ma il dissidente mi fece capire che non aveva voglia di parlare con me.
Passarono molti anni e mi ricordai di questo episodio. Io ho sempre votato per la Democrazia cristiana, partito che ha governato ininterrottamente in Italia. Si può dire che ho votato così da quando ho cominciato a esercitare il mio diritto di voto e fino a quando questo partito è scomparso. Avevo i miei miti: il cattolico Giulio Andreotti, Aldo Moro che era mio conterraneo e, soprattutto, De Gasperi.
Quello era anche un periodo in cui mi ero ficcato in testa di scrivere un libro su Giovannino Guareschi. L’idea era quella di prendere a pretesto un certo esempio per spiegare che il genio umano non può essere catalogato in maniera schematica. Avevo scelto Guareschi perché era uno scrittore che diceva di essere fermamente ancorato alla tradizione, di essere addirittura reazionario. Ma era anche qualcuno che guardava con ammirazione al progresso – i suoi erano gli anni della motorizzazione di massa. Questo per dire che una persona geniale non può essere definita semplicisticamente in una maniera o in un’altra; tradizionalista o progressista, per esempio.
La scrittura del libro, però, era destinata a prendere una piega ben diversa da quella che era la mia iniziale intenzione. Perché man mano che mi documentavo sulle varie vicende della vita di Guareschi ho dovuto anch’io andare ad “impattare il mainstream”. Mi ero accorto cioè che nel corso del processo cui era stato sottoposto lo scrittore emiliano si erano verificate alcune non trascurabili anomalie. Perciò, io che – come ho detto – ero stato sempre un sostenitore della Democrazia cristiana e che vedevo in De Gasperi un punto di riferimento, dovetti pormi la domanda se non fosse necessario quantomeno dar voce alle ragioni di Guareschi.
Pur volendo prendere in considerazione le motivazioni che avevano spinto De Gasperi a denunciare Guareschi, era del tutto evidente che questi fu condannato ingiustamente e che gli fu inflitta una pena spropositata, una di quelle punizioni esemplari cui si faceva frequentemente ricorso nei regimi comunisti. Tra l’altro, le ragioni dell’accusa non erano, stando a esplicite dichiarazioni di De Gasperi, riconducibili alla sua persona ma a un complesso di questioni attinenti al quadro politico generale. In parole povere, a un sistema di potere abbastanza articolato. Questo mi insospettì perché – è una mia idea personale – quando il potere fa quadrato intorno a qualcuno è per la necessità di nascondere qualcosa. Questa poteva essere la conferma che anche in Italia il potere politico ha esercitato una pesante censura sulla cultura.
All’epoca del processo Guareschi-De Gasperi il tribunale fu letteralmente assediato da sostenitori dell’una e dell’altra parte. Il processo era percepito da tutti come un evento epocale. Era chiaro a chiunque che davanti ai giudici milanesi Giovannino Guareschi non si ritrovò soltanto un uomo che lo accusava, ma tutto intero il potere politico; “tutto” nel senso che non si limitava al partito della Democrazia cristiana ma all’intero sistema politico italiano.
Molti anni dopo, un giornalista de Il Sabato, settimanale che cesserà le pubblicazioni – guarda caso – di lì a poco, andò a intervistare «un altro testimone di quel tempo, Flaminio Piccoli, legato da affettuosi vincoli d’amicizia a De Gasperi». Il giornalista si chiamava Francesco Lo Sardo il quale da Piccoli raccolse questa clamorosa confessione: «Che il clima politico di quegli anni possa aver influito sui giudici non lo nego».
Questa frase potrebbe spiegare quelle anomalie che io avevo riscontrato nell’andamento del processo. Ma penso che prima di ogni considerazione in merito sia necessario capire cosa abbia potuto spingere Guareschi, il Solženicyn italiano, a sfidare l’intero potere politico. In Giovannino Guareschi non vi era alcun pregiudizio nei confronti del partito della Democrazia cristiana che, anzi, aveva sostenuto al punto che gli si attribuì il merito di aver determinato la vittoria elettorale di questo partito nel cruciale appuntamento elettorale del ’48.
Ciò che invece spinse Guareschi a «prendere senza esitare la via della prigione» fu una ragione che sicuramente noi troveremo banale. Fu per una promessa fatta da bambino alla maestra elementare, promessa alla quale rimarrà sempre fedele. Nei primi giorni di scuola, la maestra aveva dettato agli scolari le prime parole da scrivere sul quaderno. Nell’archivio di Guareschi è ancora conservato il quaderno con questo compito. Il breve dettato diceva: «Devi dire sempre la verità».
È incredibile che si possa accettare di andare in galera per circa un anno, semplicemente per la promessa fatta da bambino alla propria maestra della scuola elementare. Ma Guareschi non avrebbe mai tradito una promessa fatta, non avrebbe mai tradito la propria maestra; soprattutto, non avrebbe mai tradito quel bambino innocente che era stato. Non sempre si va in galera perché si è colpevoli. Talvolta bisogna andarci anche per il motivo opposto: per salvare la propria innocenza. Perché è da questa innocenza che dipende la nostra libertà. «Per rimanere liberi bisogna, a un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione».