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Di che cosa parliamo quando parliamo di una storia

Da Marcofre

La domanda che ci si pone (forse non in modo adeguato e serio), è: che cos’è una storia? Quali sono le sue peculiarità, quelle che la rendono diversa dal resoconto giornalistico, e da qualunque altra cosa?
Domanda complessa, certo.
Purtroppo, la risposta non può essere semplice e forse nemmeno ne esiste una sola, chissà.

Dal punto di vista tecnico, se così si può dire, una storia è un testo dove uno o più personaggi combinano qualcosa, si influenzano, svelano a sé stessi e/o agli altri un nuovo volto della realtà.

Non è però detto che debbano davvero combinare qualcosa, anche perché qualcuno potrebbe alzare la mano e chiedere: “Che significa Combinano qualcosa?”. E questa domanda fa da apripista a un’altra che recita: “La storia deve sul serio svelare?”.

Rispetto a una storia raccontata a voce per esempio, cosa cambia? Questo forse è un interrogativo più interessante, perché come si sa molti ritengono di essere degli scrittori perché sono capaci di raccontare eventi e fatti con una vivacità imbattibile. E tra gli ascoltatori c’è sempre qualcuno che afferma: “Dovresti scrivere”.
Purtroppo lo fanno.

Non è male provarci, ormai non costa nulla. Però non cogliere la differenza tra “voce” e “scritto”, è un errore grave. Secondo me, la narrazione su carta (appoggiamoci ancora su questo supporto analogico per la nostra riflessione), ha dalla sua un timbro di voce ben diverso. Anche se non si declama affatto, certo.

La nuda descrizione di un fatto, un’esperienza o un incontro non sono altro che resoconto. Anche se finisce su carta, per esempio quella di un quotidiano, e la scrittura è eccellente, non è una vera storia.

Secondo me abbiamo una storia quando l’ambizione morde e si desidera con tutte le proprie forze produrre qualcosa con una qualche parentela con l’arte.

Forse ho trovato la riposta alla domanda di questo post. E probabilmente buona parte dei lettori a questo punto hanno tagliato la corda. Succede sempre così quando si pronuncia la parolina “arte”, non è vero? È roba da intellettuali, da salotti buoni.

Falso. Credo al contrario che salotti buoni e certi intellettuali preferiscano sostenere l’idea che l’arte non sia democratica, ma solo per alcuni finissimi palati. I loro s’intende.

Adesso però provo a concludere con un’affermazione secca. Arte significa scrivere qualcosa che trasmetta valore e si dimostri efficace. Se è rimasto ancora qualcuno a leggere questo post, potrebbe scandalizzarsi di una simile banalità.

Appare banale solo perché scrivere sembra semplice, ma come dice Flannery O’Connor basta sedersi e provarci per capire quanto sia difficile. Uno dei motivi per cui (di solito), lo scrittore è di cattivo umore, scontroso e non sorride mai, risale a questa difficoltà.

Però a questo punto siamo arrivati a uno scoglio mica da ridere. Abbiamo parlato di arte e di come essa per essere tale debba per forza mostrarsi efficace e trasmettere valore.

Naturalmente, non tutto può essere arte. Anzi: Dostoevskji o Tolstoj scartavano, eliminavano, rimodellavano. La loro cura non era solo sulla scrittura (senza errori); ma anche nella ricerca e nella scoperta di cosa crea movimento, azione, vita. Proprio perché non è tutto efficace, di valore. L’arte naturalmente scarta, tende sempre a puntare più in alto, a battere strade nuove.

Non so se ho trovato la risposta alla domanda del post. Però immagino di aver creato qualche spunto di riflessione.


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