
Ho sei anni, in questa foto. Piango poco, non mi piace essere coccolata ma mi succhio continuamente, quando non mi vedono, il colletto delle camicie e il bavero del cappottino. Parlo molto, velocissimamente, e tutti mi dicono “prendi fiato” o mi mettono in mano un libro, così ammutolisco e sprofondo in un mondo tutto mio e mi devono chiamare mille volte se è pronta la cena, prima di riuscire a farmelo chiudere. La maestra scrive nelle pagelle che sono brava, logica, riflessiva, equilibrata. Parlano di qualcun altro perché, se c’è qualcosa che mi sono dimenticata di fare, che mi ha turbato o che non sta andando come vorrei- e capita di continuo- trascorro le ore agitata come una tarantola fino a quando non posso scappare a casa a metterla a posto, spesso con l’aiuto dei miei, a volte da sola, e le onde si placano per qualche giorno. E mi sembra che i miei pensieri fluiscano disordinati e confusi dentro di me. Se qualcuno mi critica ci rimugino per giorni, ci rimango male, mi arrabbio. Non conosco i confini del mio corpo: le braccia e le gambe sono un mezzo per prendere le cose che voglio, per andare da un punto all’altro. Il resto serve solo da collegamento agli arti. Scrivono che sono interessata e che partecipo alle attività di classe. Sono brava a mostrare entusiasmo ma spesso mi annoio, di nascosto leggo le pagine avanti del libro di lettura, oppure mi invento storie e mi distraggo. Vorrei tornarmene a casa e risprofondare nel romanzo che il giorno prima ho dovuto chiudere, morta di sonno. Ho una grafia disordinata, illeggibile, non so disegnare e chiacchiero. Concordo, a capo chino, prometto sempre che migliorerò ma dentro di me penso che queste non siano cose da correggere. A casa studio il solfeggio, alzo e abbasso le dita sui tasti bianchi e neri del pianoforte, soffio nel flauto ma non trovo la chiave per arrivare alla musica. Scrivono che sono matura, ben inserita, che tendo ad assumere ruoli da organizzatrice. Parlano di nuovo di qualcun altro perché io sto bene da sola o, al massimo, in compagnia degli adulti, a cui sono abituata, mentre capisco poco i miei coetanei, che mi fanno paura. Mi sembra di essere spesso molto diversa da loro, in un modo sbagliato, che non so definire, che mi preoccupa e mi fa sentire a disagio. Non conosco il loro linguaggio, non capisco le regole dei loro giochi, mi sento goffa e fuori posto. Arrossisco, continuamente, violentemente, penosamente. Se mi chiedono cosa voglio fare da grande rispondo: la scrittrice. O la maestra. O il medico.
La prossima settimana compirò 39 anni. Continuo a non piangere, ho smesso di succhiare il colletto dei vestiti ma solo perché é una cosa che gli adulti non possono fare. Parlo molto, spesso a voce bassa, la velocità dipende dall’argomento. Nessuno mi dice di prendere fiato: ho imparato a capire quando gli altri smettono di ascoltarmi e allora mi interrompo. Se non parlo, scrivo. La magia dei libri funziona ancora. Nessuno mette più giudizi su di me nero su bianco. Devo capire da sola se vado bene o male, in funzione di quello che mi fanno passare tra le mani. Per calmare l’agitazione delle cose lasciate in sospeso scrivo liste, su pezzetti di carta: “biblioteca, stirare, corso ingl, telef tizia, scrivere caio, cambiare gomme invernali, compiti tedesco, idea per cena”. Funziona, è catartico: quando arrivo in fondo alla lista mi sono calmata e così la butto nel cestino perché non mi serve più. Le cose le faccio comunque e se ne dimentico una non mi sembra più così grave. Ne ho una sola di liste di cose da fare che non butto mai via: lì ci sono i grandi progetti. Una delle due persone che facevano le onde calme intorno a me non c’è più. L’altra continua in una missione genitoriale senza limiti d’amore. Se qualcuno mi critica mi arrabbio ancora, però molto meno e ogni tanto riesco perfino a pensare che questo qualcuno abbia ragione. Non conosco ancora i confini del mio corpo ma sarebbe meglio se li tracciassi: spesso ho lasciato che si espandesse e ora sarei felice se occupasse meno spazio. Il pezzo centrale che collega gli arti, ad un certo punto, è diventato molto più importante di loro ma continuo a chiedermi perché. Ho imparato a mostrare entusiasmo solo quando lo provo davvero e ad evitare come la peste la noia inflitta. Male che vada, continuo ad inventarmi storie e a soffocare sbadigli. Voglio sempre tornare a casa e continuare a leggere dal punto in cui mi sono interrotta il giorno prima, morta di sonno. E la grafia illeggibile c’è ancora, ma hanno finalmente inventato i word processor; adesso mi dispiace di non saper disegnare, di continuare ad alzare ed abbassare le dita sui tasti del pianoforte sempre davanti alle stesse note, perché ad andare oltre non sono riuscita. Mi pagano, per fare l’organizzatrice, anche se ci ho messo un po’ a convincerli a lasciarmelo fare. Gli altri continuano a farmi paura e a farmi sentire sbagliata. Alcuni, a volte quelli che non avrebbero dovuto, anche solo per biologia, farlo, mi hanno ferita. Ho imparato a proteggermi. Però, lungo la strada, ne ho incontrati altri, di sbagliati, meravigliosamente più sbagliati di me, e ancora li incontro: mi attirano come calamite e ho imparato da loro a smettere di sentirmi fuori posto. Arrossisco ancora, ma ormai ho imparato a riconoscere le battaglie perse. Non sono diventata una scrittrice perché questo sogno non ho avuto il coraggio di sciuparlo; le maestre sono pagate poco e il medico é meglio non farlo, se ci si accorge, poco prima di scegliere per davvero, che la prima reazione davanti alle persone che soffrono é quella della fuga. Però ancora non so che cosa voglio fare da grande.
Per il mio compleanno quest’anno mi sono regalata una settimana di montagne russe: inizia domani, finirà domenica prossima, in tarda serata. C’é dentro di tutto: alcune cose importanti, alcune cose che mi spaventano, alcune cose che ignoro, altre che mi sono felicemente familiari, molte persone nuove da conoscere, alcune persone “vecchie” da reincontrare e qualche ora di treno per leggere e per pensare. L’ultima volta che mi sono organizzata qualcosa di vagamente simile, per il mio compleanno, ma molto più in piccolo, uno sciopero mi ha scombinato le carte e, non so come, la sera, al posto di tagliare la torta e soffiare sulle candeline, mi sono ritrovata in un’autoambulanza con una caviglia gonfia come le maracas, un legamento saltato e l’infermiere che ironizzava sulle coincidenze. Ci riprovo a farmi un regalo: se tanto mi dà tanto, questa volta mi investe un camion. Però, quando succederà, non avrò un capello fuori posto, dato che di capelli mi sembra di non averne quasi più. Dopo anni di lunghe lunghezze, medie lunghezze, incerte lunghezze e infinite tonalità di biondo, nel tardo pomeriggio di oggi ho reso estatico un parrucchiere. “Taglia. Corto. E lasciami il mio castano fino a quando non vedremo comparire il primo capello bianco.” Mi ero dimenticata di quanto sia bello avere nuda la nuca.
Buoni giorni a tutti: io non vedo l’ora che inizi la mia settimana di compleanno, comunque vada. Ci sentiamo il 31.





