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Di lavori passati ed amicizie lontane

Da Valepi

 

Di lavori passati ed amicizie lontane...

foto:flickr

Questo post è dedicato alle amiche e compagne di viaggio che sono state con me durante tutto il periodo di precariato precedente la nascita di Princi.
Il precariato continua, seppure in modo diverso (ora lo chiamano libera professione), ma loro non sono più compagne del mio viaggio professionale, se non a distanza, e mi mancano da morire.
Ci si rende conto di quanto conti il lavoro solo quando lo si perde, come una marea di altre cose nella vita, forse come tutto… d’altronde è da quando siamo adolescenti che ce lo dicono, capisci quanto una persona è importante per te solo quando la perdi.
È vero che parlare di perdere il lavoro quando si è precari è buffo e ridicolo quasi quanto sentir parlare delle proprie fidanzate un bimbo dell’asilo: la maggior parte delle volte le fortunate nemmeno lo sanno e così è per il lavoro precario, lui non sa che voi lo considerate un lavoro vero, non lo sanno i vostri cosiddetti datori di lavoro, lo sapete solo voi, che vi fate film di fedeltà e continuità dimenticando che siete solo una pallina nell’abaco delle statistiche utili al governo a dire che la disoccupazione nell’ultimo anno è diminuita (in realtà siamo noi precari, che abbiamo firmato tre contrattini, ad avere fatto lievitare la statistica, mica lo sa la statistica che se io ho tre contratti e un altro ne ha zero non è come averne uno e mezzo a testa… ricordate il pollo?).
Comunque, presa dalle riflessioni sulla malinconia legata alla distanze dalle mie bimbe ho fatto un po’ di ricerche (e chi mi conosce sa se sono state lunghe o brevi) e ho trovato un interessante studio, seppure un po’ datato, sugli effetti della perdita del lavoro. La studiosa che lo propone, Marie Jahoda, sostiene che il lavoro assolva importantissime funzioni sociali, di tipo manifeste, legate soprattutto alla percezione dello stipendio (vabbeh! qui ci sarebbe da aprire un altro capitolo), ma soprattutto di tipo latente, legate alla funzione sociale e socializzante del lavoro, che emergono soprattutto quando si perde il lavoro.
Vado quindi ad analizzarle una per una, sempre permeata dall’alone di malinconia originato dal cambiamento del precarissimo ex-lavoro e dalla distanza delle, ancora precarissime, ex colleghe:
Funzione numero 1: Il lavoro struttura e organizza il tempo. Verissimo: mi alzavo prestissimo, per prendere il trenino prestissimo e arrivare prestino davanti all’ufficio, in tempo in tempo per prendere insieme alle altre il caffè di inizio giornata! Ancora prima di arrivare già ci si sentiva per telefono per accordarci sul bar prescelto e si dava inizio alla giornata raccontandosi le rispettive vicende di vita anche se, considerato che ci eravamo lasciate la sera prima alle otto, non potevano essere cambiate più di tanto… ma c’era sempre qualcosa da dire. Le successive tappe temporali prevedevano: lavoro, lavoro, lavoro in emergenza, pausa caffè, lavoro in emergenza, lavoro in extremis, pausa pranzo, lavoro lavoro lavoro, pausa caffè e così via fino a circa le otto di sera…
quando chiamano il lavoro precario, non si riferiscono certo alle ore di lavoro, non essendo definite da contratto hanno poco di precario e limitato e sono sempre moooolto superiori a quelle accettate da un paese civile.
Funzione numero 2: Il lavoro permette e facilita i contatti sociali. Sacrosanto! A parte che il maritino ed io ci siamo conosciuti sul lavoro, del vecchio lavoro niente mi manca di più della stanzetta 4 metri per 4 dentro cui eravamo capaci di lavorare anche in 10. Altro che contatto!! Odio lavorare da sola e adoravo invece essere tutte nella stessa stanza a dare ognuna il suo piccolo contributo alla società, scambiandoci ogni tanto battute, racconti, chiedendo e dando aiuto, frastimando i computer che non funzionano o la rete che va a singhiozzo. Eravamo una piccola grande famiglia.
Funzione numero 3: il lavoro contribuisce alla creazione di un ruolo sociale e dell’identità. Vero in parte. Intanto perché quando fai un lavoro come quello che facevo io a volte hai anche difficoltà a spiegare alla gente cosa fai nella vita: capiscono sempre aglio per cipolla e quello che fai tu è spesso talmente intangibile da risultare irreale. Insomma, si, ti da un ruolo e un’identità, ma solo all’interno del gruppo in cui lavori, che sa perfettamente di cosa si tratta, all’esterno è sufficiente far sapere che “lavori” e questo già ti qualifica come un essere utile alla società. Tanto basta ai precari. Noi, in ogni caso, avevamo ognuna un suo ruolo: c'era Bill Gates, c'è la precisina, c'era chi ci faceva ridere in continuazione, c'era chi si ricordava di tutto, c'era quella che sapeva sempre tutto ecc ecc ecc anche a rotazione.
Funzione numero 4: Fornisce un collegamento tra scopi individuali e sociali. Vero. A parte la già citata sensazione di essere utili alla società era proprio l’aiuto che ci si dava all’interno di quella stanzetta a riempirci le giornate. Arrivavi in un ufficio con un tuo individualissimo scopo professionale e personale e ti ritrovavi a passare la giornata a fornire (o ricevere) supporto morale e professionale alla (o dalla) collega di turno.
Funzione numero 5: Rinforza la possibilità di svolgere attività. E anche questo può testimoniarlo chiunque abbia mai lavorato: il lavoro chiama lavoro (soprattutto se precario) e stare in mezzo al giro ti consente, anche grazie alla funzione 2, di conoscere le persone giuste ed essere al posto giusto al momento giusto.
Insomma, ora che il mio ex precario lavoro e le mie ex precarie colleghe sono lontani: a volte mi impigrisco e ho difficoltà ad organizzarmi le giornate (funzione numero 1), lavoro quasi sempre sola e con le persone che incontro non ho il tempo di instaurare veri e propri rapporti sociali (funzione numero 2), ho ancora più difficoltà a definire il mio lavoro (funzione numero 3), perdo spesso fiducia nell’utilità sociale della mia attività (funzione numero 4) e il lavoro, invece di saltarmi addosso – seppure non pagato – come capitava prima, devo andare a rincorrerlo e non sono mai stata una gran jogger.
Insomma, bimbe, mi mancate tantissimo, mi manca quel postaccio dove potevamo stare assieme e dove alcune di voi sono ancora impantanate e, anche se, guardandole a distanza, molte cose si sono ridimensionate e riesco a vedere e cogliere l’assurdità di tutto quel sistema, sono riuscita a mettere serenamente una pietra sopra ogni aspettativa di carriera da quelle parti, ma non sulla speranza che l’amicizia con voi possa continuare. Mi mancate, vi voglio bene.


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