“Passerà il mese di agosto. Tutti se ne andranno. Torneranno verso le città. (…) Partiti tutti il silenzio piomberà sulla valle, specie sui borghi più isolati. Un silenzio quasi di cimitero dissacrato.”
Giuliano Toccafondi
In questi giorni festeggio un anno sulla montagna.
Mi sono innamorato dell’appennino tosco-emiliano: ho trovato una casina deliziosa, un paese di cui sono innamorato e un lavoro che mi dà pane per la pancia e per l’anima. Quello che state per leggere è un omaggio al luogo in cui vivo oggi.
Ciò che di questo brano mi è più caro, è che è composto anche di persone che a queste terre appartengono o che ne sono state contaminate, che compaiono nelle prossime righe e che ringrazio infinitamente e menziono in ordine di apparizione in questo lungo brano: le splendide fotografie di Spedaletto e nei boschi che la circondano scattate da Ylenia Cantello, che spuntata all’improvviso mi ha scritto una mail bellissima dopo aver letto un mio precedente racconto sull’appennino e che è venuta fin quassù a conoscermi, scattare, emozionarsi per queste montagne. E tornerà, queste fotografie sono l’inizio di una lunga collaborazione; le osservazioni di Giuliano Toccafondi, appassionato narratore di storia locale della montagna pistoiese che non ho fatto in tempo a conoscere, mi sono dovuto accontentare di leggere il suo bellissimo “C’è stato un tempo che tutto era un giardino” (Settegiorni Editore); l’amore di Bill Homes per l’appennino, che ha portato questo pittore inglese a vivere qui vicino e a dipingere splendidi acquarelli di paesi, case, selciati destinati a scomparire, memoria visiva per sopravvivere nei secoli, che spero di incontrare presto di persona; le poesie di Azzurra D’Agostino, di stanza a Pavana, poeta e ideatrice del festival più coraggioso che conosca, “L’importanza di essere piccoli”, determinante nei primordi della mia attrazione per questi boschi non meno di Guccini e di certi miei ricordi d’infanzia poco distanti da qui; le canzoni di Stefano Testa, un musicista di stanza a Madognana (sopra Porretta Terme) che ha accolto la mia curiosità e con cui è nata una bella amicizia. L’ho nominato mio “maestro di montagna, di alberi e di fiori” e lui non è ancora scappato. Il testo della sua canzone che conclude questo brano è l’esatta traduzione di tanti dei pensieri che accompagnano i miei giorni qui, a braccetto di vallate generose da un anno. Questo mio brano ha l’ambizione di testimoniarmi almeno quanto quei cinque splendidi minuti di musica appenninica.
Buona lettura.
Da qualche tempo preferisco ascoltare invece di parlare, non mi piacciono più i giudizi non strettamente necessari, non credo sia sempre necessario capire qualsiasi cosa per star bene.
Non voglio identificarmi con niente, ma voglio provare ad accettare tutto quello che accade, non fosse per il fatto che il mio rifiuto di un elemento qualsiasi non lo esclude dal campo del reale, ma esclude invero me stesso da una piccola parte del mio essere nel mondo.
Se esiste, va contemplato.
“Poco, mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte,
e questo cielo
e queste nuvole”
Velimir Chlebnikov
Oggi le strade note sono già state battute, non restano sentieri di senso, “ghirlande di senso tra uomini che non sopportano l’oblio di altri uomini” (Girolamo De Simone). Così mi attraggono le diverse esperienze che si muovono ai margini e che dal margine vedono ciò che al centro appare opaco e resta impensato: c’è tutto un mondo, un’Italia di paesi e montagne che vive ancora di bene, di terra, di carne, di niente. Nell’era dell’accumulo sconsiderato i paesi ci insegnano ancora l’arte della sottrazione, un’arte alla portata di tutti. Dopo dodici mesi che vivo su queste montagne sto imparando cos’è un paese un passo alla volta, con le fibre rosse del mio corpo, quelle a contrazione lenta, quelle per una lenta ma durevole promessa di resistenza e non per uno scatto fugace: “un paese che se accogli la sua lingua, ti dice che sei un cane, che deve dismettere l’arroganza di chi pensa di essere il padrone della terra. Il paese è una creatura che sgretola qualunque narcisismo”. Qui resiste davvero un orizzonte debole ma vivissimo in cui aggirarci nelle rovine prodotte dall’approdo del modernismo più autistico su queste terre generose, per abbracciare ogni domanda circa ciò che verrà, ciò che saremo, perché tutto il nostro abbracciare è una domanda ed è “forse è il tempo di capire che ognuno di noi è l’unica cosa che non c’è in questo mondo gremito di tutto, la cosa che a nessuno manca” (Franco Arminio).
Oggi il mio paese è Spedaletto Pistoiese, sulla vecchia statale Porrettana che unisce Pistoia a Bologna, una nobile decaduta nella storia dei trasporti italiana a favore della parallela A1. Ci sono arrivato per caso, un passo alla volta e l’ultimo messo d’istinto, al buio, ascoltando solo l’irragionevolezza del mio respiro: scelsi di venire a vivere sulla montagna pistoiese durante un viaggio di cinque mesi in India, improvvisamente, un giorno che ricordo ancora perfettamente e con gratitudine, sbucando da una lunga galleria al cui al di là cambia l’aria, cambia la vegetazione, cambia il dialetto e che separa la collina morbida dai primi rilievi appenninici, queste vallate sconfinate e selvatiche da cui vi scrivo. E dopo quei cinque bellissimi mesi in Asia, non appena ci misi piede, ho subito saputo che questo sarebbe stato il luogo dove mi sarei fermato per un po’ e dove ho avuto poi la fortuna di trovare una casetta accogliente, che mi aspettava. Il paese è a mezz’ora a piedi dal luogo dove lavoro, un lavoro splendido che raggiungo camminando lungo la Via Francesca o Via Francigena che dir si dica e che attraversa il paese proseguendo oltre, nel bosco, in direzione nord e sud all’interno di un più vasto diverticolo detto della Sambuca, attivo a partire dal VI secolo d.C.. Non posso fare a meno di ripensare a come due anni fa per andare a fare un lavoro di merda mi toccava un’ora di bus nel traffico metropolitano dell’ora di punta. Non so come farei ancora, adesso, non so come fanno tutti quelli che lì sono restati. Non ne capisco più il senso, ne accetto appena la rievocazione strettamente memorialistica, l’amarcord innocuo. Ogni tanto penso agli “amici lontani che corrono in lode per strade affollate” (Stefano Testa) con nostalgia e con una smorfia d’amarezza perché quassù vengono poco, distrattamente, pensando che qui sia una pausa dalla “vita vera” e scambiando la frenesia delle città con una “presenza” umana che invero ne è sempre più aliena. Sui treni e sui bus urbani si abbassa lo sguardo, si mettono le cuffie per abitudine all’autismo corale; qui anche un un selciato, un sentiero, un albero ti guarda, ti parla.
Durante il Medioevo Spedaletto era un “hospitalis” per viandanti, pellegrini e mercanti, garantendo nei secoli a chi si fermava ospitalità, accoglienza e riparo. La tipologia più comune di hospitale comprendeva un locale adibito a magazzino per le scorte di viveri, vestiti e medicinali; accanto i locali adibiti a mensa e sul retro le stalle. A completamento la cucina con gran forni che riscaldava anche il piano superiore ed infine la cappella o chiesa che generalmente era sede della confraternita (in questo caso, monaci agostiniani) che ne gestiva l’amministrazione. Al piano superiore infermeria e dormitori atti a dare riposo già prima dell’anno mille secondo alcuni studiosi, ed io, oggi, dormi tra queste stesse pietre. L’hospitale svolgeva inoltre i lavori di manutenzione di strade ed attraversamenti per diversi chilomentri e viene descritto come adatto, allora, a soddisfare tutte le necessità dei viaggiatori. Come le mie quando sono arrivato qua, di ritorno da un lungo viaggio e, appunto, con una strada tutta nuova da intraprendere, simpatici segni coincidenti che ritornano tra la mia vita e questo angolo di appennino, avvicinando ulteriormente chi scrive a questo paese, facendomi davvero credere che Spedaletto fosse dall’inizio nel mio destino individuale e il mio essere qui adesso sia la certificazione di aver seguito adeguatamente i segni offerti dal caso, dall’anima o dal Dio. Senza ragione di esserlo, ne sono felice e da quando sono qua sto attento a non rompere quest’armonia intorno e dentro di me.
“Potessi un giorno
camminar da solo.
ma solo solo.
non come vado adesso.
solo.
ma solo solo.
senza me stesso”
Antonio Delfini
Durante il mio viaggio in India, come a tanti tra coloro che hanno fatto esperienza profonda di questo paese così controverso, mi è capitato spesso di sperimentare una inedita sensazione di pace, assenza e al contempo intensità della mia presenza nel qui ed ora: la condizione soggettiva di pienezza coincide sovente con una pari sensazione di assenza da se stessi, almeno questo è quello che dicono i grandi mistici di ogni religione, e quello a me più caro, San Giovanni della Croce quando invoca un “distacco interno da tutte le cose”.
Sulla montagna è più facile sentirsi staccati da tutte le cose, soli nella pienezza dell’essere. Ma la questione non è solo geografica e/o demografica. Certo, incide, ma la questione centrale è che l’uomo contemporaneo, più propenso alla distruzione (o all’inaugurazione perenne) che alla conservazione (o manutenzione), ha scelto le città come luoghi in cui sperimentare tutte le possibili derive tecnologiche lasciandone così altri a riposare, respirare, toccati solo marginalmente. Così quando sento qualcuno chiamare questi paesi – “abbandonati” – accompagnando il tutto con un velo di tristezza sugli occhi mi viene sempre un poco da sorridere. Laddove taluni immaginano una condanna a morte già eseguita, io vedo la fuga salvifica del prigioniero, la resistenza silenziosa di chi si finge morto ma è tutto tranne che esangue. I paesi sono come tante patate dimenticate chiuse da tempo dentro una cantina buia eppure non ancora morte: nonostante l’abbandono la patata germoglia ugualmente, cerca comunque di crescere tendendo verso la debole luce di una finestrella. È così che un paese resiste. Basta aprire una finestra e il paese intero canterà, perché esso è al contempo giardiniere e fiore.
“Lasciamoli pure morire di morte naturale. I paesi hanno fatto il loro tempo. Sono stati importanti e utili per secoli, sono venuti dalla terra, murati a terra e tornano alla terra”
Bill Homes
Quando cammino nel bosco sono solo, non so se solo solo o semplicemente solo. Cammino lungo la via Francigena che passa nel mezzo a olivi, castagni, querce, faggi, accanto il fiume che corre fra i sassi formando rapide e pozzi. Nel più grande di essi, detto il Bozzone al paese, si ricorda che i pastori portassero le pecore a lavarsi prima di tosarle. Oggi è diventata la mia piscina naturale e nell’arco di pochi decenni la natura selvaggia si è ripresa quei lotti di terreno usati come campi per l’agricoltura e la pastorizia. È incredibile come la natura si riprenda tutto ciò che l’uomo abbandona nel tempo, senza battere ciglio. Come questi boschi che fanno tornare indietro il paesaggio di un milennio quando solo pochi decenni or sono tutto questo era un grande manto erboso per il pascolo del bestiame. In questi boschi invero oggi cammino e mi perdo, mi lascio andare all’aria, alla terra, al niente, solo quando al ritorno si riaffaccia il paese tra gli alberi e i pendii mi pare di rientrare dentro di me, lasciandomi alle spalle lupi, volpi, vipere, cinghiali, cervi che nel bosco stanno bene sempre, anche al buio e col gelo.
“E questi alberi
che guardano
non crediate che siano in pace
è come un grido questo bosco
anche se tace”
Azzurra D’Agostino
C’è un pertugio che a un tratto si apre su una delle tante costole di bosco possibili una volta abbandonato il sentiero principale, ci si affaccia su una sponda affacciata sul torrente della Limentra Occidentale prima che questa si allarghi a fondovalle ed erompa in crespi flotti d’acqua. Giuliano Toccafondi descrive così questo corso d’acqua: “L’occidentale, che punta verso il tramontare del sole e poi anch’essa volge a poco a poco verso il nord, forse alla ricerca delle sorelle (Limentra Orientale e Limentrella, ndr), ma non riuscirà mai a raggiungerle, pur avvicinandosi al loro percorso. L’uomo ha provveduto, con la galleria di Pavana, a far sì che le tre sorelle trovassero pace e tranquillità nel lago di Suviana, dopo il loro corso impetuoso”. Scendendo tra le sterpaie si entra in una piccola passerella di sassi, a lato una poltrona naturale costituita da un enome sasso per giunta tappezzato di morbido muschio invita a sedere, respirare, e mi sorprende il gusto che la natura ha nell’offrire giacigli al viandante. Ma non mi accoglie il silenzio, né per questo i rumori provenienti dalla non distante Porrettana, ma il roboante fruscio della cascatella leggermente sulla destra, mentre davanti radici nude d’un faggio cresciuto a precipizio sul corso d’acqua creano un paesaggio orfico. La terra che ne stava alla base è franata nel fiume e scivolata a valle, ha mutato ordine e si è confusa con gli elementi circostanti. Fisso la pozza che si apre e non c’è dubbio, non c’è traccia dello smottamento del terreno, tutta sembra così da sempre. Così fisso l’albero seduto su questa deliziosa poltrona naturale e mi rispecchio in esso: prorompente, sradicato e serenamente solo nella propria sradicatezza benché immerso nel bosco sterminato. E sospiro, fisso qualcosa che gli occhi non sanno di fissare.
Me ne vado solo quando sento il colpo di qualche cacciatore, non mi per questioni etiche che lascio oggi ad altri discutere, ma semplicemente perché rompe il mio incanto e mi richiama all’uomo che mi ero dimenticato di essere. E forse è un bene, spesso quando accade già ombreggia fitto, rincaso nella notte fresca che avanza. Quando arrivo il paese è deserto. Non che sia una rarità, qui restano sempre poche decine di anime dopo il termine diurno delle azioni di ognuno. Il paese con la sua già citata tradizione d’ospitalità lungo i secoli nell’accogliere i pellegrini spicca un poderoso campanile, c’è questa campana detta la Smarrita che veniva suonata ininterrotamente dal tramonto fino a mezzanotte per indicare la giusta via ai viandanti in difficoltà. Io non sono venuto a vivere qui perché mi trovavo in difficoltà con me stesso, né per scappare da qualcosa anche se non ci sarebbe niente di male, eppure l’effetto che mi fa rivedere la Smarrita è al contempo ancora di rifugio e ristoro, come nei secoli. Tutto cambia e niente cambia davvero nei paesi, se si guardano bene, dritti in fondo all’anima. I paesi sono le sentinelle d’un “caro disegno intatto” (Osip Mandel’stam) che resta, Spedaletto Pistoiese non fa eccezione, anzi.
“Le montagne sono sempre generose. Mi regalano albe e tramonti irripetibili; il silenzio è rotto solo dai suoni della natura che lo rendono ancora più vivo”
Tiziano Terzani
Mi chiedo poi al ritorno qual’è il senso di studiare la qualità della vita dentro laboratori bui, in edifici osceni e attraverso ogni tipo di teoremi e teorie. Ho rischiato di finire a far ciò, per fortuna un colpo di coda, l’India forse, un sentore qualsiasi mi hanno salvato. E pensare che basterebbe uscire a fare due passi ogni giorno per smettere di porsi un problema indefinibile e iniziare ad abitare una soluzione possibile, riscoprendo l’importanza di essere piccoli. Qua posso perdermi dentro la parola aperta, divento le cose del mondo, quella parola che sta dietro l’aria. Qua benedico il dono raccolto nell’ala di ogni istante iluminato, e me ne sono capitati tanti nel bosco quest’anno. Qua un figlio potrà allenare la memoria con i nomi degli alberi e non con i modelli delle macchine, un mondo in cui non è necessario spiegare ai nipoti la bellezza del mondo in stanze ammobiliate, ma invitandoli a uscire di casa lasciando la porta sempre aperta. Sono cresciuto in una casa in cui tenere la porta, la finestra aperta ha un costo, quello dell’insicurezza rispetto alle incursioni esterne. Qua invece, da quando il sole è tornato a scaldare il paese, la montagna, posso lasciarla sempre aperta e non esser mai rivolto verso me e me solo, anche quando non vedo una singola persona per giorni, e nei paesi questo capita, capita eccome. Ecco cos’è questo paese per me, una casa da cui lasciar libero di andare e venire il fanciullo che è in me, perché la porta, la finestra è sempre aperta.
“Essere solo un orlo da cui sempre
comincia ogni altra forza che consuma;
senza più adesso, senza più ancora,
esser solo del tempo una dimora”
Luigi Fallacara
Oggi al mio paese c’era la festa con tutti gli affezionati-parenti-vacanzieri accorsi qui per mangiare-bere-stare insieme. Il 24 agosto si festeggia il patrono del paese, San Bartolomeo che secondo la tradizione intraprese lunghi e numerosi viaggi e portò il Vangelo fra le popolazioni più remote d’Oriente, arrivando fino in India. Il paese e i paesani lo festeggiano da anni riempiendo la piazzetta di bancarella con lavori artigianali, prodotti tipici della montagna e dolciumi a simboleggiare un ritorno all’infanzia celebrato principalmente attraverso uno specifico rito ecclesiastico espletato nella funzione della mattina. Tornato alle sette da lavoro, sono andato speranzoso in piazza a vedere se c’era sempre qualcosa, salutare, farmi almeno vedere in giro da quelli che mi hanno voluto bene fin dal primo giorno, senza dovermi niente, risparmiandomi persino una diffidenza iniziale che avrei compreso, accettato. Sono così stato accolto da un gruppo di paesani sorridenti con un vassoio di leccornie preparato per me, perché sapevano fossi a lavorare (nessuno sa come, poi).
Commosso per un atto dove ho scorto più generosità che in tutta la beneficenza del mondo, sono tornato a casa con una sensazione di calore umano inspiegabile eppure equivalente, in umore, al motivo esatto per cui sono qui, adesso, ad ogni passo sprofondando nella fiera e severa dolcezza di queste persone così simili alle montagne che alte e generose le proteggono dalle luci della città distante.