Magazine Cultura
Di questi tempi mi è infatti concesso soddisfare la mia ossessione del viaggio-con-uno-scopo. Il concetto è semplice: odio fare la turista. Se vado in un posto, deve essere perché la mia presenza in quel posto è in qualche modo richiesta, necessaria, o indotta da fattori esterni.
Oggi basta andare su last minute e fare un paio di click per raggiungere qualsiasi posto nel mondo, in tempi e prezzi ragionevoli. Ed è troppo facile, non c'è gusto. Nella mia personale scala di valori, prendere un aereo e cambiare fuso orario così, tanto per andarci, non vale niente. Prendere una guida, ripercorrere i luoghi percorsi da milioni di turisti, fare quello che fanno tutti gli altri, uguale punteggio di soddisfazione personale basso. Mentre se ci devo andare, perché qualcuno me l'ha chiesto e mi paga il viaggio per andarci, punteggio molto alto.
Per cui in questi ultimi mesi ho guadagnato punti su Londra, Parigi, Roma, Mosca e San Pietroburgo. Viaggi fugaci, pezzetti di sensazioni e ricordi che si mettono assieme come puzzle, mentre studio la mia reazione al nuovo, il mio tentativo di catturare la cultura di un intero paese basandomi sui pochi elementi tra l'aeroporto e l'albergo, spesso gonfiando stereotipi preconcetti, cercando conferme che era proprio come me lo immaginavo.
A Roma mi sono sentita come se una parte molto profonda di me avesse sempre vissuto lì, fra le vie di Trastevere e il giardino assolato delle suore. Che ti offrono da leggere Avvenire di tre giorni prima e - per me - di sette anni fa.
In Russia l'entusiasmo di derivazione terzaniana mi ha fatto passare una notte bianca degna di Dostoevskij. Alcune diapositive nella mia testa: la biondissima receptionist del Metropol di Mosca, la colazione in un salone fuori dal tempo con il caviale e la suonatrice di arpa, la signora ossigenata con le unghie di un tamarro bicolore sul volo Aeroflot, la giovane coppia con i capelli rasta e i piercing e i sorrisi bellissimi sulla prospettiva Nevskij, sotto il cielo blu chiaro delle due di notte.
A Londra sono stata abbagliata dagli schermi al plasma con le notizie di borsa che correvano su fondo azzurro aquamarine, al dodicesimo piano di un edificio immacolato, dalla cui vetrata integrale si vedeva tutta la città.
A Parigi sono stata intossicata irreversibilmente da alcune tartine al salmone, sotto al maestoso palazzo dell'Agence France Presse, che due anni fa avevo fotografato sospirando, durante un breve e caldissimo weekend.
Devo ammettere che però sono stata anche a Lisbona e mi è piaciuta moltissimo, anche se non c'era una ragione specifica per percorrere la città vecchia in quell'adorabile tram a cui si aggrappavano ragazzini senza biglietto. Forse perché il mare, la lentezza e l'autenticità sono beni dal valore crescente, quando la propria vita quotidiana è fatta di raduni artificiali in uno spazio artificiale dentro una Bolla.
In conclusione non sono una viaggiatrice naturale, un'entusiasta del viaggio, un'animale da Alpitour o da interrail. Allontanarmi dai paraocchi della quotidianità mi comporta un sacco di fatica, fisica e soprattutto mentale. Comunque, nonostante il precedente limite autoimposto dei confini europei, ho ormai un passaporto in piena regola per i prossimi dieci anni.
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