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Di rose piccine e tavolini scrostati

Creato il 04 settembre 2010 da Lasere

Stavo tornando dalla Bretagna, da quella terra misteriosa in cui gli spiriti della natura catturano le creature umane affinché le loro anime possano fondersi magicamente con quella della natura; un luogo cioè in cui le antiche querce, talvolta cave, la felce che cresce ad altezza umana, le enigmatiche pietre erette e coricate (i dolmen e i menhir), le fonti e le polle gorgoglianti, l’edera che ricopre le mura degli antichi manieri e dei mulini ormai cadenti sussurrano: «Senti la voce di Merlino? – Una volta che l’avrai ascoltata, mai più la scorderai». E ancora: «Senti il velo di Viviana avvolgerti, come un ricciolo di bruma lucente? O sono forse ragnatele umide di rugiada? Neppure da questi fili impalpabili riuscirai più a districarti».

Ruth Ammann, Il Giardino come spazio interiore

Tè e natura per me sono legati da quegli stessi fili impalpabili di cui è intessuto il velo di Viviana; mescolati in quella stessa, soffusa e inestricabile magia. Il luogo ideale per bere qualsiasi tè per me è ovunque ci sia cielo, alberi, erba, animali intorno: Natura.

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Anche per questo motivo è così immensa la gratitudine che provo ogni volta che percorro il mio giardino, così prodigo di pietre muschiose, di fronde e fiori, di profumi, di timidi e riservati abitatori. Ogni sguardo svela un angolino appartato, ed ognuno di essi ha una sua indole particolare, ognuno chiama e accoglie un certo stato d’animo: là l’ombra fitta di un piccolo boschetto di corbezzoli, con foglie secche al suolo, fruscìo tenebroso e rami contorti; poco lontano una panchina di pietra sotto il vecchio sambuco, dall’ombrello di rami che si erge alto e protettivo; più oltre i raggi del sole schermati dalle spesse foglie dell’ippocastano, ricci spinosi di castagne in terra, verdi malli di noce, talvolta l’incanto furbo e veloce di uno scoiattolo che rosicchia un guscio; o l’aia assolata, dove tra alberelli di limoni e piante grasse di ogni foggia e misura capitano prima o poi durante il giorno tutte le tartarughe del giardino, per banchettare con gli avanzi di frutta e verdura che proprio lì sono abituate a trovare.

Mi sposto dall’uno all’altro seguendo il corso dei pensieri, più lieti o meno lieti: ovunque trovo il conforto che mi serve (il rifugio), e la cornice ideale per il tè che di volta in volta scelgo come balsamo e compagnia.

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Per seguirmi in questi miei piccoli viaggi, ieri mi è stato regalato un tavolinetto pieghevole di legno scrostato, così naturalmente dimesso da confondersi ovunque decida di soffermarmi per un tè. Il ripiano è un vassoio ampio, c’è spazio per tutti i miei indispensabili gingilli.

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Per l’occasione sono passata al vivaio in cerca di una piantina adatta: ho scelto una rosa piccina e romantica, rosa e crema, con foglie di un verde scuro intenso e brillante così simile a quello degli aghetti di Gyokuro. L’ho subito rinvasata con cura – la gioia pulita dell’aver mani sporche di terra! – e portata con me sotto un piccolo ciliegio, per inaugurare degnamente il tutto: il tè non poteva che essere un Gyokuro: un Kuradashi, per la precisione, lasciato a sonnecchiare ed affinarsi in un granaio del Giappone per un anno, prima di arrivarmi in tazza.

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Aria di solitudine, dio trasparente
che edifichi in segreto la tua dimora
su pilastri di vetro di quali fiori?
sulla galleria illuminata
di quale fiume, di quale fonte?
Il tuo santuario è la grotta di colori.
Lingua di splendore parli, dio nascosto
all’occhio e all’udito.
Solamente nella pianta, nell’acqua, nella polvere ti affacci
con il tuo vestito di ali di colombe
risvegliando la freschezza e il movimento.
Sul tuo cavallo azzurro vanno gli aromi,
solitudine diventata elemento.

Jorge Carrera Andrade, Dettato dall’acqua

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