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Comprendere i problemi per progettare soluzioni. In una società moderna, o che tale vuole definirsi, questo è il punto di partenza per ogni cambiamento. E visto che in questi giorni spira un forte vento di cambiamento, che percorre da Nord a Sud lo Stivale, proviamo allora a leggere -nel dettaglio- alcune indicazioni emerse negli ultimi giorni. Tra queste, le recenti Considerazioni Finali del Governatore di Bankitalia Mario Draghi. Che, prima di fare le valigie per Francoforte, ha voluto consegnare al Paese la diagnosi dei suoi mali:
-abbiamo perso dieci anni di crescita. Dei sette punti di crescita persi a causa della crisi, ben cinque mancano ancora all’appello. Nel 2000 crescevamo del 3,7% (ve lo ricordate? Sembrano secoli fa…) Ora se superiamo l’1% è grasso che cola… Ma serve almeno un +2%, quantomeno, per sistemare i conti pubblici.
-le imprese italiane sono frenate dal cosiddetto “nanismo“: troppo piccole, con una struttura produttiva statica, pochi passaggi dimensionali, troppo spesso rinchiuse nel chiuso del cerchio famigliare. Si tratta del 60% delle imprese italiane (quasi i due/terzi), contro meno del 30% in Francia e in Germania. Per Draghi questo status quo non rappresenta più un’opzione: servono più imprese di media e/o grande dimensione, in grado di accedere ai mercati internazionali e sfruttare i guadagni di efficienza offerti dall’innovazione tecnologica. Le nostre imprese sono mediamente più piccole -per il 40%- rispetto a quelle dell’Eurozona. Nel settore manifatturiero, le nostre presentano una media di soli otto dipendenti, contro gli 11 della Spagna, i 14 della Francia e i 35 della Germania. Solo quattro aziende italiane sono rintracciabili nella classifica delle prime 50 imprese europee per fatturato. Gli investimenti privati tricolori in R&S ammontano allo 0,5% del Pil, contro l’1,1% della Ue-15 e il 2% della Germania. Last but not least, le nostre aziende presentano patrimoni inferiori a quelle europee, con finanziamenti quasi solo bancari e un elevato peso dei debiti a breve scadenza. In questo quadro lillpuziano, come mai possiamo pretendere che questo Paese, il nostro Paese, possa divenire “patria” di giovani laureati, dal profilo brillante e aspirazioni elevate? Qui si spiega pure la bassa occupabilità dei nostri profili qualificati.
-infatti, secondo un’analisti di Intesa San Paolo-Prometeia, siamo sotto di dieci punti nell’export di produzioni di alta qualità, rispetto alla Germania. Soltanto nel 2015 riusciremo a recuperare completamente il fatturato cancellato dalla crisi del 2009.
-crolla anche un altro mito dell’Italia del terzo millennio: quello del risparmio. Il reddito disponibile lordo delle famiglie è diminuito dello 0,5% in termini reali, per un’erosione che tocca il 4,6% nell’ultimo triennio. Non siamo più le formiche d’Europa. Paradossalmente, in questo momento siamo tra i peggiori risparmiatori del Vecchio Continente.
- la modesta risalita del reddito nominale italiano (+1%) è stata “mangiata” dall’inflazione.
-Bankitalia indica otto settori di intervento, dove puntare per far ripartire il Paese: mi piace sottolineare la proposta di uno stop al dualismo sul mercato del lavoro, per “raddrizzarlo” a favore dei giovani. Un riequilibrio che “migliorerebbe le aspirazioni di vita dei giovani, spronerebbe le unità produttive ad investire di più nella formazione delle risorse umane, ad inserirle nei processi produttivi, a dare loro prospettive di carriera”. Altra proposta molto interessante il rafforzamento del sistema di protezione sociale, praticamente inesistente in Italia, per chi perde il lavoro e si mette alla ricerca di un altro impiego. Altre ricette imprescindibili: più concorrenza, nel Paese delle corporazioni. E poi istruzione, giustizia civile, contratti, impiego femminile, infrastrutture.
Leggete e rileggete questi punti, un’analisi che proviene da una delle poche istituzioni veramente indipendenti d’Italia. Scoprirete come non siamo usciti dalla crisi meglio di altri (ci siamo entrati anche peggio, rispetto agli altri), come questo non sia un Paese per giovani qualificati e di talento, come la colpa della bassa occupabilità dei nostri laureati sia anche di chi non ha saputo o voluto ridisegnare la nostra politica industriale, modernizzandola (ed ora, senza vergogna alcuna, invita i giovani ad adattarsi a qualsiasi lavoro!).
Soprattutto, scoprirete perché decine di migliaia di giovani qualificati scappano ogni anno da questa nave… che rischia di colare a picco.
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