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Diamo a Cesare quel che è di Cesare… e agli Psicologi?

Da Abattoir

Cari e non cari amici, come ben sapete, in questo nostro Stato le cattive novelle sono all’ordine del giorno, in particolare quelle che riguardano il mondo dell’istruzione e delle nostre flagellate università.
Sappiamo benissimo che è interesse primario della Gelmini tagliare fondi su fondi, riducendo professionalità-ricercatori-atenei-facoltà-corsi di laurea. Questa graziosa mannaia gelminiana è proprio ciò che da giorni cruccia la categoria a cui idealmente appartengo: quella degli psicologi.
Difatti, da qualche giorno serpeggia tra noi il dubbio dell’assorbimento: come è già accaduto di soppiatto (gli iscritti all’Ordine Psicologi Lazio non ne sono stati informati!) alla Sapienza di Roma con l’accorpamento di Psicologia I e II a Medicina, si teme che, sottobanco e silenziosamente, sia questo il destino che i gretti contabili che ci ritroviamo in Parlamento ed ai vari Rettorati vogliano far fare alle nostre storiche facoltà psicologiche.
Ce ne chiediamo senza requie il perché.
Ad esempio, era stato stabilito che le facoltà della Sapienza dovessero essere ridotte a 12, mentre l’accorpamento di queste 3 facoltà in 1 lascia la Sapienza mutila di un figliolo, con un totale di 11 facoltà. Et ergo, ancora più a gran voce domandiamo: “Perché, o sommi ministri e rettori, venite a rompere l’anima senza sosta a noi?”

La lettura del fattaccio potrebbe essere più contorta, inquietante, medicalista del previsto.
Eccovi le ipotetiche evidenze:

A più riprese i medici hanno cercato di accaparrarsi ambiti di nostra pertinenza.
Qualche tempo fa, le alte sfere politiche hanno partorito una proposta di legge che riguardava l’istituzione dello “Psicologo di base”: in pratica, i laureati in Medicina e odontoiatria potevano, secondo certe insane menti, svolgere attività proprie dello Psicologo, mentre per farlo i laureati in psicologia dovevano attendere 10 anni dall‘abilitazione. In sintesi, loro prendevano subito capra e cavoli. Noi, che per anni studiamo materie specifiche a tali fini, dovevamo attendere. 10 anni!
Sine verbis.
Sempre un po’ di tempo fa, l’Ordine dei Medici chiedeva l’acquisizione delle fondamentali competenze cliniche nella diagnostica psicopatologica differenziale per un corretto esercizio della sua attività professionale… come se il servizio di assistenza psichiatrica possa essere erogato solo da medici e non da équipe formate anche da psicologi (che hanno per legge quegli atti tipici).
Come osserva Nicola Piccinini, l’ordine non sembra puntare, quindi, ad una valorizzazione del ruolo dello psicologo, ma ad un’appropriazione legalizzata dei nostri atti tipici… per andare ad allargare il profilo professionale del medico.
Terza ed ultima questione su cui riflettere è questo famigerato accorpamento, che suona come l’ennesima delegittimazione della nostra professione, da sempre vista come inferiore a quella medica. Andazzo che rischia veramente di appiattire la psicologia agli aspetti medici, di cura, trasformandola in una medicina “di serie B”.
Quello di cui forse certe personalità eminenti non si avvedono, è che noi psicologi la nostra rispettabile identità, seppur costruita a fatica, seppur ancora spesso incompresa, l’abbiamo!
Abbiamo già da tempo abiurato l’idea cartesiana della mente e del corpo come emblemi di un’identica macchina da studiare secondo le medesime leggi della fisica medica.
Siamo riusciti a circoscrivere la componente bio-medica ad uno dei molti campi di applicazione della psicologia. E non abbiamo bisogno di ulteriori definizioni alienanti che tentino di ricordurci onnicomprensivamente all’area medica.
Questa violenza l’abbiamo già subita 200 anni fa, quando il Positivismo affermò la fiducia nella scienza del dato osservativo e il rifiuto della filosofia, della religione, del misticismo, di tutte le pratiche terapeutiche non scientificamente fondate, premendo per una riduzione al biologico del funzionamento mentale.
Per fortuna, in questo panorama irrompe la figura del buon Freud, che parte dalla sua formazione medica per trovare un linguaggio, una nuova lettura della psiche umana… lettura per decenni quasi disprezzata e deprezzata dalla medicina ufficiale.
Ma una cosa è certa: “Freud non avrebbe avuto nessun bisogno di altre parole se gli fossero bastate  quelle della medicina. Perché dovremmo averne bisogno noi, dopo più di cento anni?” (L. de Vita).
Infatti, c’è voluto più di un secolo per trovare una nostra dimensione indipendente, per riconoscerci e vederci riconosciuti, per far notare l’utilità della nostra figura professionale nei vari ambiti dell’esistenza umana. E ancora la strada è lunga. Perché regredire di nuovo all‘ambito medico?

I dati di fatto per rifiutare questa ipotesi fusionale ci sono.
La Psicologia ha un’ottica distinta dalla psichiatria. Facciamo capo a due discipline diverse, possiamo per comodità usare lo stesso linguaggio, condividere le etichette diagnostiche… ma abbiamo una nostra prospettiva assolutamente diversa da quella bio-medica; una prospettiva che privilegia la relazionalità, la storia e l’ambiente del paziente, prima ancora della cura farmacologica; che cerca il cambiamento all’interno del naturale percorso evolutivo del paziente, prima ancora di ricorrere alla chimica; che coglie il significato del sintomo e del malessere, prima di eliminarlo con una pillola.
Perché dovremmo essere inferiori a chi ha una formazione medica, piuttosto che diversi, diversamente abili? E “perché mai dovremo essere preoccupati di non conoscere la clinica dal punto di vista organico? Abbiamo formazione sufficiente per sapere che qualsiasi altra patologia di natura organica deve essere esclusa tramite esami clinici ad hoc prima di formulare la nostra ipotesi psicodiagnostica e la nostra proposta terapeutica” (L. de Vita).
E ancora: la diagnosi non può essere solo medica, deve essere anche psicologica. Esse si completano a vicenda, come anche la psicoterapia e la terapia farmacologica, entrambe di efficacia dimostrata e di pari dignità.
Sarà evidente anche per un profano, a questo punto, che medici e psicologi osservano i fenomeni umani da angoli visuali diversi; per questo le nostre competenze dovrebbero arricchirsi a vicenda.
E’ in questa integrazione costruttiva che ha un senso la diversità, che essa acquista valore aggiunto. Ma – come sottolineano anche Luana de Vita e Nicola Piccinini – nessuna integrazione è possibile con l’assimilazione.

Forse nella fretta e nella poca chiarezza in cui stanno cercando di accorpare tutta questa brodaglia indifferenziata “psicologiaI+II+medicina” dovremmo leggere l’ingerenza di una classe farmaceutica che coltiva i suoi interessi a braccetto con una medicina farmaco-dipendente, laddove non vede invece di buon occhio una psicologia che potrebbe toglierle pazienti dipendenti a vita dal farmaco?

Diamo a Cesare quel che è di Cesare… e agli Psicologi?
In qualsiasi caso, il punto, signori, è che non è mai uscito nulla di buono, di salutare, dalla tuttologia. Né esiste alcun valido motivo per ri-consegnare la psicologia al modello bio-medico.
Diamo a Cesare quel che è di Cesare: le manifestazioni vita psichica vanno ricondotte a dinamiche e meccanismi psichici; noi la vediamo così, per il resto, tutti liberissimi di credere diversamente.
Ma cercate di non essere miopi: il corpo e la mente sono due aspetti di un organismo complesso che la scienza studia con strumenti differenti, biologici e psicologici. Non sono la mente e il corpo ad essere diversi, ma i punti di vista e i campi d‘azione.
E tali, seppur in continua e costruttiva comunicazione, è giusto che dignitosamente restino.


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